Cosa si diceva degli immigrati albanesi 26 anni fa

A sfogliare i giornali dei giorni più caldi dell’emergenza si ritrova gran parte del lessico a cui siamo familiari.

Cosa si diceva degli immigrati albanesi 26 anni fa

A sfogliare i giornali dei giorni più caldi dell’emergenza si ritrova gran parte del lessico a cui siamo familiari.

L’8 agosto del 1991 attraccava nel porto di Bari la nave mercantile Vlora, stipata di profughi albanesi — circa 12 mila, secondo quanto si diceva allora, addirittura 20 mila secondo le ricostruzioni recenti. La nave, respinta poche ore prima a Brindisi, era riuscita a forzare il blocco navale deciso dal governo italiano, determinato a far rispettare la propria “linea dura” sull’immigrazione. Ovvero: respingere le imbarcazioni e rimpatriare immediatamente chi fosse riuscito a superare i blocchi.

Una posizione di intransigenza adottata già a partire dagli sbarchi dei mesi precedenti, sulla base della legge Martelli del 1990, che distingueva nettamente tra rifugiati politici e semplici migranti “economici” — tra cui, secondo il governo, andavano annoverati gli albanesi. Il 6 marzo erano state tenute al largo di Brindisi due navi con 6500 persone a bordo, ma a partire dal giorno successivo forzarono i blocchi e sbarcarono sulle coste pugliesi circa 27 mila profughi.

La legge è la «Martelli», che dall’anno scorso regola i flussi di immigrati e che questa volta può essere lo strumento con cui rispedire a casa le migliaia di albanesi che stanno sbracando (sic) sulle coste pugliesi. Perché i flussi migratori sono regolati da quote precise e da condizioni irrinunciabili: si entra in Italia solo se si ha la certezza di poter lavorare. E gli albanesi sono forniti, al massimo, di una speranza.

Corriere della Sera, 7 marzo 1991

I mesi seguenti sono caratterizzati dall’inazione e dall’ambiguità politica: non si riescono a gestire né l’accoglienza né i rimpatri, si offrono aiuti economici a Tirana per fermare l’esodo, si continua a far rispettare il divieto di sbarco anche quando è insostenibile, mentre le Regioni rifiutano la redistribuzione dei profughi arrivati in Puglia, timorose per la stagione turistica.

La maggior parte dei rimpatri forzati comincia soltanto a giugno, poche settimane prima della seconda grande ondata di sbarchi.

È necessario – afferma la Boniver (ministro dell’Immigrazione, ndr) – impedire ogni tentativo illegale di ingresso in territorio italiano: per questo a nessun albanese sarà permesso di scendere dalle navi

Corriere della Sera, 14 giugno 1991

Di quei giorni d’agosto oggi si tende a ricordare soprattutto la solidarietà dei cittadini baresi che fornirono aiuto e beni di prima necessità ai profughi, ma quello della Vlora fu l’episodio culminante di una gestione disastrosa dell’emergenza umanitaria. Emergenza che si poteva definire tale — oggi come allora — solo a causa della clamorosa e colpevole impreparazione delle autorità italiane.

[…] Ieri i sindaci delle aree turistiche lo hanno ricordato in una riunione in prefettura. C’è il proposito di chiedere lo stato di «calamità naturale». I danni provocati dagli albanesi — sostengono — vanno considerati come la siccità o la mucillagine in Romagna.

Corriere della Sera, 18 giugno 1991

Nella speranza di poter bloccare l’approdo e rispedire la Vlora direttamente a Durazzo, non era stato preparato nulla per accogliere quelle migliaia di profughi. Così, si pensò bene di chiuderli dentro lo stadio della Vittoria, dove rimasero assediati per 8 giorni, spesso scontrandosi con la polizia nel tentativo di forzare le uscite.

Alla fine, furono quasi tutti rimpatriati con la falsa promessa di essere trasferiti in altre città italiane, o di denaro in cambio del rimpatrio — una vicenda meschina per cui l’Italia fu ufficialmente rimproverata dall’UNHCR.

Ricordare quei mesi del 1991 è utile innanzitutto per relativizzare l’emergenza migratoria di questi ultimi anni, confrontandola con un episodio della storia recente che, sebbene non paragonabile dal punto di vista dei numeri, presenta molte somiglianze — non solo per la sua cattiva gestione, ma anche dal punto di vista della reazione politica e dell’opinione pubblica.

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Dai “boat people” ai “barconi,” cos’è cambiato da allora?


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A sfogliare i giornali dei giorni più caldi dell’emergenza si ritrova gran parte del lessico a cui siamo familiari, spesso anche più violento: l’8 marzo 1991 il Corriere della Sera titolava in prima pagina: Diecimila profughi all’assalto, come se si trattasse di un esercito nemico. L’11 marzo si parla addirittura di “marcia su Milano” per dare notizia di poche decine di profughi che avevano cercato di dirigersi in Svizzera.

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“Non possiamo accoglierli tutti,” “Fuori tutti e subito, sono clandestini,” sono alcuni dei titoli di quei giorni: i media e la politica hanno avuto un ruolo importante nel dipingere ciò che stava accadendo come un’invasione. E l’atteggiamento della stampa è stato fondamentale per radicare nell’opinione pubblica — anche tra chi, come nella maggior parte del Nord Italia, ancora non aveva mai avuto a che fare con un cittadino albanese in carne ed ossa — i pregiudizi che avrebbero perseguitato la comunità albanese almeno per i dieci anni successivi.

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Loro hanno fatto da cavia. Non hanno compiuto l’invasione, ma ne sono stati i precursori e secondo un timore diffuso, la presenza a Trieste dei «primi» albanesi potrebbe attirare un’altra ondata.

Corriere della Sera, 9 marzo 1991

Secondo uno studio complessivo sul discorso pubblico riguardo all’immigrazione in Italia, condotto analizzando la stampa dal 1969 al 2001, è solo dopo gli anni Ottanta che il problema dell’immigrazione viene bruscamente politicizzato. Dal punto di vista lessicale, questo si traduce nell’istituzionalizzazione di una distinzione ancora oggi validissima: quella tra “straniero” e “immigrato,” con accezione peggiorativa di quest’ultimo. Siamo all’alba della nascita della Lega Nord, che sulla demonizzazione di “immigrati,” “clandestini” ed “extracomunitari” avrebbe costruito una fortuna politica.

La diffusione del termine “migrante” negli ultimi anni si è avuta proprio per contrasto rispetto al significato ormai percepito come denigratorio della parola “immigrato” — ma porta alcuni dei suoi stessi difetti: in primo luogo, la de-personalizzazione del soggetto a cui si riferisce, appiattito sulla condizione momentanea della migrazione.

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da: Sciortino, Colombo (2010), The flows and the flood: the public discourse on immigration in Italy, 1969-2001

In mezzo a poche storie “umanizzanti,” la maggior parte degli articoli di giornale che affrontano il tema dell’immigrazione tra il 1982 e il 1991 riguardano le decisioni politiche prese al riguardo, o si inseriscono in contesti tout court negativi: devianza e criminalità, povertà, emarginazione, proteste, sbarchi clandestini. La situazione non migliora negli anni successivi: uno studio del Dossier Statistico Immigrazione rivela che nel 2002, su 1205 articoli di giornale dedicati all’immigrazione più del 50% riguardava soltanto la Legge Bossi-Fini (o la relativa sanatoria) e gli sbarchi illegali.

L’allarme mediatico e la diffusione dell’idea di un pericolo portano direttamente a gravi errori nella percezione dei fenomeni demografici, come rivela periodicamente la serie di sondaggi intitolata Perils of perception, condotta da Ipsos Mori: per esempio, nel 2015 i cittadini italiani credevano in media che la percentuale di stranieri residenti fosse attorno al 26%, un dato tre volte superiore a quello reale.

Ventisei anni dopo, che ne è dell’“invasione degli albanesi?” Al primo gennaio 2013, gli albanesi regolarmente in Italia erano poco meno di mezzo milione, pari al 13,2% del totale dei cittadini stranieri nel paese. Pressoché sparita dalle cronache nel ruolo di spauracchio criminale, saldamente mantenuto fino ai primi anni del Duemila (e ora assunto da immigrati provenienti da altre zone del globo), la comunità albanese in Italia è vista oggi come un modello esemplare di integrazione. Un’integrazione certamente non favorita da anni di terrorismo mediatico, che adesso, con il senno di poi, possiamo francamente chiederci a cosa sia servito.

Ora, dopo anni di politiche disastrose sull’immigrazione, migliaia di morti in mare, un trattamento costantemente emergenziale di un’emergenza già vista, una continua de-umanizzazione dei profughi, un governo che esulta per “il calo degli sbarchi” e fa di tutto per sigillare le frontiere del paese, criminalizzando chi cerca di aiutare persone che hanno la sola colpa di essere nate dal lato sbagliato del pianeta, ecco, sfogliando i giornali, in questi giorni, potremmo provare a immaginarci tra ventisei anni.


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