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tutte le foto: Giada Arioldi

La seconda lunga chiacchierata al Filagosto Festival l’abbiamo fatta con Coez. Ci siamo immersi nel suo ultimo album, Faccio un casino, uscito lo scorso 5 maggio, e abbiamo parlato di canzoni, sound, scena romana e… Occhiali scuri.

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Come stai? Ho visto che i giorni scorsi eri a Londra.

Sì sono appena tornato, ho fatto un viaggio della speranza. Quattro ore di ritardo distribuite tra l’aeroporto e l’aereo. Sono arrivato a Roma e da lì ho preso il treno e sono arrivato un’ora fa. Però a parte questo sto bene dai.

Parliamo di generi: oggi tutti si buttano sulla trap, tu invece scegli il pop o comunque un rap più “classico”. Come mai?

Io ho 34 anni eh… Diciamo che ci sono artisti che portano avanti il rap in ogni sua forma, Guè Pequeno potrebbe essere un ottimo esempio da portare. Io ascolto la trap ma non mi ci vedrei mai con quel tipo di tematiche, con quel tipo di sound. Preferisco fare una roba mia che non cavalchi la moda del momento. Perché poi anche a fare trap bisogna avere del talento. Il mio è un altro e si basa sulla scrittura delle canzoni.

Te lo chiedo perché non mi sembra che il genere pop goda di buona salute, intendo dal punto di vista della proposta musicale (perché dal punto di vista degli ascolti va alla grande).

Vedrai che invece tra un po’ le cose cambieranno. Adesso stanno chiamando questa nuova ondata di pop, che penso venga per lo più da Roma, indie-pop. Però rientrano in questa categoria un sacco di gruppi che fanno semplicemente pop, come i Thegiornalisti o, che ne so, pure Calcutta. Dipende tutto dal nome che dai alla cosa, io le chiamerei semplicemente canzoni, cosa che non è il rap, non è la trap. Le canzoni sono un’altra cosa e non è che hanno un genere, semplicemente ognuno ha un proprio stile di farle. Magari meglio non chiamarlo pop, perché in Italia se dici pop pensi subito a Biagio Antonacci…

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Nel disco dedichi una canzone a tua mamma, E yo mamma. Quindi l’attitudine hip hop comunque non si discute.

Sì esatto, soprattutto su quel pezzo, che ha un testo rap arrangiato come una canzone e non cavalca nessun genere. È anche abbastanza minimal come tutto il resto del disco.

Le canzoni sono un’altra cosa e non è che hanno un genere, semplicemente ognuno ha un proprio stile di farle.

Oggi che cosa ti appassiona di più, la costruzione della rima o la ricerca del ritornello?

La rima continua a essere una cosa fortissima nelle mie canzoni, anche nei pezzi più pop. Chiaramente ci sono i wordplay che avevo nel rap. Li porto pure su Faccio un casino dove a volte chiudo le rime con la stessa parola, che è una cosa che nel pop sembra sbagliata ma nel rap è all’ordine del giorno. Io sono comunque un misto delle due cose, la mia formazione viene da là ed è giusto che abbia ancora dentro di me quel germe che viene dal rap.

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Leggendo recensioni e interviste la questione che emerge periodicamente è appunto: “Coez fa rap o pop?” Ti infastidisce il fatto che i giornalisti ti facciano sempre questa domanda?

Sì, palesemente sì. Però allo stesso tempo mi metto nei loro panni, che devono spiegare una cosa. Cioè anche a me capita, quando conosco qualcuno e mi chiede “che lavoro fai?”, di rispondere “faccio il cantante”. Poi mi chiedono “che genere fai?” e io penso “che cazzo ne so!”. Cioè, io faccio le canzoni. Che gli devi dire? Come fai a spiegare una cosa a parole?

Ci si trova un po’ a dover etichettare.

Ma sì, è così. Poi penso che anche alcuni giornalisti si prendano male per questa cosa.

Non dovrebbe essere un valore aggiunto saper fare entrambe le cose, rappare e cantare?

Sicuramente lo è. Poi è vero che in alcuni casi è più difficile perché, che ne so, prendi i promoter delle serate rap, magari fino a quando la roba che fai non è conclamata non ti chiamano. Io comunque, mi rendo conto, non sono uno che fa proprio rap. Secondo me devi spingere finché la cosa diventa talmente grossa che ti chiamano da tutte e due le parti. All’inizio era un freno perché magari né all’uno né all’altro andava di investire sul progetto. Adesso, dopo tre dischi, le cose per me sono cambiate abbastanza.

Ti hanno fatto tutti i complimenti per il video di Faccio un casino. Nelle scene finali ci sei tu che ceni con Contessa, Sine e Banana. I primi due sono i produttori dell’album mentre Banana lo definisci il tuo dj preferito. Come ti trovi a lavorare con loro?

Bene. Banana non è solo il mio dj preferito, è il mio dj. (sorride). Niccolò invece è quello che conosco da meno tempo di tutti. L’ho cercato io e sono anni che ci sentiamo per collaborare. Dovevamo fare un pezzo insieme su questo disco, poi però lui se n’è uscito con gli accordi di Faccio un casino e lì abbiamo capito che era un pezzo per me, non un pezzo da fare insieme. E lui secondo me in realtà era più interessato a fare quel tipo di percorso da produttore, compositore o autore. Con Sine invece lavoro da più tempo. Il primo disco che abbiamo fatto assieme risale a dodici o tredici anni fa… Quando ho visto che c’era tutto questo rap nel disco e mi servivano due persone per amalgamare il tutto, ho scelto loro due, Sine e Contessa, perché magari uno era più esperto sulla canzone e l’altro sul rap. E poi fondamentalmente ci siamo divertiti un sacco.

Il tocco di Contessa mi sembra più evidente in Le luci della città, che ricorda molto le atmosfere di Aurora, l’ultimo disco de I Cani.

Ti dico la verità, in realtà penso sia un caso perché quel pezzo non l’ho scritto con lui. Il provino era di Orange & Frenetik ed è rimasto così tipo per quattro anni. Poi quando è entrato all’interno del disco, per rendere tutto omogeneo, abbiamo messo le mani anche su quello. Ecco, di sicuro il synth l’ha suonato Contessa, ma il suono l’avevamo scelto prima.

In generale il disco è ricchissimo di influenze diverse. A che cosa ti sei ispirato nella scrittura?

Secondo me le influenze ce le hai, punto, poi quando vai a scrivere escono così. In Le luci della città io ci vedo un sacco Vasco per esempio, però magari non è così, magari ce lo vedo io. Ma Vasco lo vedo pure su Faccio un casino nella parte parlata — sei presa a male, hai rotto un altro cellulare — quella roba lì sembra uno dei suoi speech dei primi dischi. Però appunto il mondo di Contessa è uno, quello di Sine è un altro ancora.

Tra l’altro Sine ha appena pubblicato un EP fortissimo, No Crew No Clue.

Sine è un fenomeno, super sottovalutato perché comunque in Italia, a livello di sound, senza voler essere cattivi, manca la cultura. Mentre all’estero la musica si basa molto sui sound, qui si basa sugli accordi e il testo. Motivo per cui anche nell’indie magari funzionano degli artisti che hanno dei bellissimi testi, una bellissima scrittura della canzone, però poi coi sound osano poco, magari perché vogliono passare in radio… Insomma è difficile. Uno come Sine a livello di sound ha un background pazzesco.

Che però in Italia non emerge.

Appunto, è difficile, perché nessuno sa quello che stai facendo, da dove stai pescando. Io e Sine abbiamo fatto un EP tipo cinque anni fa con delle influenze che andavano dalla jungle, alla dubstep, all’elettronica, al rap classico. Il disco è anche piaciuto, però la gente non se n’è accorta di quello che stavamo facendo. Magari se vai in Inghilterra, che ne so, la gente anche se non suona capisce quello che stai facendo, le citazioni dei vari generi.

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In Faccio un casino convivono due anime, una melodica, che emerge nella prima parte, e una rap, quella di Taciturnal, Occhiali Scuri, Un sorso d’ipa. La scelta di sviluppare l’album su questi due piani era decisa dall’inizio oppure è venuta man mano scrivendo il disco?

Era decisa prima. Alcune cose rap le volevo tenere fuori, ma se faccio questo disco intero dal vivo non è che si discosta poi così tanto dai live che facevo l’anno scorso, dove mettevo le canzoni e i pezzi rappati con la band. E non è che quella cosa piaccia di meno. Sicuramente quelle tre o quattro canzoni d’amore del disco sono quelle che hanno apprezzato di più tutti quanti, sarà sempre così, però poi c’è anche chi apprezza altro. A me fondamentalmente viene bene, mi piace farlo, quindi si, è uscito più o meno tutto da solo.

Per dirti, prendi il disco di Jovanotti. Lui fa quei quattro o cinque banger che passano tutte le radio, ma poi — stando a quel livello — nel disco si fa veramente i cazzi suoi, cioè fa pure il rap che piace a lui. Invece diciamo che alcuni miei pezzi rap potrebbero anche essere dei singoli, in ambito strettamente rap. Io viaggio proprio su due binari, Jovanotti su uno solo — però magari meglio di tutti.

Qualche settimana fa è uscito Barceloneta, il brano che hai scritto con Carl Brave x Franco126. Ascoltando il pezzo le vostre voci sembrano amalgamarsi naturalmente. Com’è nata la collaborazione?

Io penso di essere stato il primo a Roma a fare rap melodico, un tot di anni fa. Quindi nel momento in cui ho sentito qualcosa di diverso da quello che faccio io, però allo stesso tempo figo, sono stato molto contento. Roma è sempre stata una città che doveva un po’ ostentare la strada, la volgarità. Che ci sta, non che io non l’abbia fatto, però è giusto anche vedere dei progetti diversi con un respiro più ampio, più rilassato.

Io penso di essere stato il primo a Roma a fare rap melodico, un tot di anni fa.

Quando loro sono usciti io li ho pompati un po’ su Instagram, li ho conosciuti e niente, poi ci siamo incontrati a Barcellona dopo che ci eravamo già visti più volte e c’era questa cosa di fare prima o poi un pezzo insieme. Così quando siamo tornati da Barcellona, tipo due giorni dopo, ci siamo sentiti io e Carl e abbiamo fatto questa cosa e io sono super contento.

In un’intervista dici che non esiste più una scena romana.

Guarda, l’ho letta anch’io quell’intervista. In realtà, se devo dire la verità, avevo capito male la domanda, perché parlavo proprio di scena rap, non di una scena romana in generale…

Scena musicale?

Sì, con l’indie e tutto il resto, compreso il rap come quello di Carl Brave X Franco 126, che è uno esempio di rap che sta entrando nell’indie. Anche io magari sono un esempio di quella cosa, o comunque sto in quel calderone. Quello che intendevo io è che, quando ad esempio facevo parte della scena, a Roma c’erano i gruppetti che suonavano in sala prove e non si inculava nessuno, oppure i gruppi rap che cominciavano a far serate. C’era anche un posto di riferimento dove ci beccavamo tutti. Un po’ si scazzava, però alla fine era tutta una roba molto easy. Penso che adesso creare una scena con le etichette di mezzo sia già più difficile…

Perché ci sono più regole?

Esatto. E quindi non è detto che non si crei, ma comunque non è quello che intendo io per scena.

Sui social ho visto che interagisci un sacco.

Sì, rispondo e mando anche affanculo, se serve.

Ma quindi l’album come sta andando?

Il disco va da paura! Adesso, a partire da un mese fa, gli ascolti digitali si sommano al fisico per il conteggio FIMI del disco d’oro. Calcola che sono stato per tre mesi senza questo conteggio. Sarei stato tipo tra i primi dieci posti FIMI per tre mesi. Questa regola è entrata in vigore dopo tre mesi dall’uscita del mio disco e adesso sto tra il tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo posto. Quindi comunque è ancora molto in alto. Però, capisci che il tempismo nella vita è importante. (ride)

Parlando di occhiali scuri, ce ne consigli uno da sfoggiare quest’estate?

Guarda io ho un botto di occhiali ma alla fine uso questi qua, i Wayfarer. Sono proprio i miei classiconi. Poi va beh, se vuoi c’è l’occhiale Gucci un po’ ignorante, però devi averci pure il core de portarlo in giro.


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