72 anni dopo Nagasaki, si parla ancora di guerra atomica
Il clima di tensione sembra appesantirsi ad ogni dichiarazione o comunicato stampa dell’uno o dell’altro fanatico leader.
Il clima di tensione sembra appesantirsi ad ogni dichiarazione o comunicato stampa dell’uno o dell’altro fanatico leader.
Il 9 agosto di 72 anni fa veniva lanciato l’ordigno “Fat Man” sulla città giapponese di Nagasaki, appena tre giorni dopo Hiroshima. Ma quell’orrore perpetrato a danno di centinaia di migliaia di civili innocenti ed inermi non è mai servito ad avviare un disarmo nucleare definitivo. Al contrario, la questione nucleare è stata centrale per tutta la durata della Guerra Fredda e lo è ancor di più dalla fine di quel conflitto, probabilmente tenuto in equilibrio proprio dal rischio di “mutua distruzione assicurata.” Negli ultimi anni, infatti, il ritmo di riduzione degli armamenti atomici – riduzione imposta dai trattati internazionali – ha subìto un forte rallentamento.
Così, le pagine di cronaca in questi bollenti giorni d’agosto si riempiono delle minacce perpetue tra Washington e Pyongyang, che non trovano tregua neanche in occasione della ricorrenza di quell’enorme disastro nucleare.
Il clima di tensione sembra, anzi, appesantirsi ad ogni dichiarazione o comunicato stampa dell’uno o dell’altro fanatico leader.
L’escalation si è aggravata in seguito all’approvazione unanime di nuove sanzioni dell’Onu al regime nordcoreano; la trattativa ha visto protagoniste Mosca e Pechino, che si erano astenute alle precedenti votazioni riguardanti la risoluzione del problema nordcoreano. Questa volta, dopo un lungo braccio di ferro, le due superpotenze hanno ceduto alla firma, riuscendo ad alleggerire le sanzioni previste sull’export pur lasciandone immutata l’esemplarità punitiva, che dovrebbe causare al regime di Kim Jong-un un danno di circa un miliardo di dollari all’anno.
Il giovane erede della dinastia dei Kim ha risposto alle sanzioni promettendo di far pagare un “prezzo mille volte più caro” agli americani, come riportato dalla KCNA, l’agenzia di stampa nazionale. In seguito a questa ulteriore minaccia, il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, H. R. McMaster, ha dichiarato per la prima volta percorribile l’opzione di una guerra preventiva contro la Corea del Nord.
Le minacce continuano a intrecciarsi proprio in queste ore, in seguito ad una indiscrezione trapelata dall’intelligence americana e riportata dal Washington Post, secondo cui la Corea del Nord sarebbe riuscita a produrre una testata nucleare miniaturizzata pronta per essere montata sui vettori testati negli scorsi mesi. Si tratta, in realtà, di una voce di corridoio da fonti intelligence che circola almeno dallo scorso marzo 2016, e che viene puntualmente “rimasticata” da giornali e politica come esempio del potenziale letale nordcoreano. È insomma impossibile valutare se sia avvenuta o meno l’entrata della Corea nell’esclusivo club dei Paesi nucleari – che, curiosamente, sono gli stessi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna oltre a India, Pakistan e Israele) e gli stessi Paesi che presentano il nucleare civile come l’unica soluzione al cambiamento climatico. Ma questa è un’altra storia.
Il botta e risposta scaturito da quest’ultima notizia ha preoccupato anche gli analisti e i politologi più ottimisti per il suo carattere particolarmente muscolare e ben poco diplomatico. Da un lato, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che, se Pyongyang continuerà a provocare gli States, la risposta sarà “fuoco e furia, come il mondo non ha mai visto prima”; dall’altro, la televisione di Stato nordcoreana ha annunciato di essere pronta a colpire la più vicina base militare americana, situata sull’isola di Guam, con missili balistici a medio e lungo raggio.
Al di là della recente escalation di minacce, la particolare situazione nordcoreana costituisce un caso studio molto complesso già da diversi anni. Il programma di acquisizione nucleare nordcoreano, prima ad esclusivo utilizzo civile e poi – come spesso succede – convertito in un programma militare, è stato ed è motivato da diversi fattori, spesso ignorati da chi pretende di ascrivere delicati equilibri geopolitici alle bizzarre manie egocentriche di questo o quel leader. Inserita da George W. Bush nei Paesi dell’“asse del male” nel 2002, la Corea del Nord effettua il suo primo test missilistico nel 2006, dopo essere uscita dal Trattato di non proliferazione nucleare nel 2003. L’arricchimento dell’uranio è stato strumento, innanzitutto, di una strategia di deterrenza: è legittimo pensare che il motivo per cui non è stata mai attuata un’operazione di “regime change”, sulla scia di Saddam e Gheddafi, in Corea del Nord stia proprio nel potere deterrente delle sue testate nucleari (stimate tra le 30 e le 60), pronte a dispiegarsi contro il sud della penisola, filo-occidentale, in caso di un attacco americano. Il nucleare costituisce, inoltre, uno strumento di pressione verso la Cina, ex alleata, affinché si mantengano vivi i rapporti commerciali (che arricchiscono la dinastia al potere, più che il popolo) con quello che è il principale partner economico nordcoreano.
La situazione coreana è precipitata con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca; fino a questo momento, infatti, la regione ha goduto di un lungo periodo di equilibrio, dovuto alla coincidenza di diversi fattori: la “pazienza strategica” di Obama, contrario ad una guerra preventiva; la volontà comune di salvaguardare il ruolo strategico della Corea del Nord, in quanto Stato-cuscinetto tra Russia, Cina e Corea del Sud, ancora vicinissima agli USA; l’ambiguità cinese di fronte al pericolo nucleare nordcoreano, che si potrebbe risolvere in un’unificazione delle due Coree sotto l’egida statunitense, a discapito del gigante d’Oriente. La fine di questo equilibrio, seppur precario e per lo più apparente, è dunque coincisa con l’avvio della presidenza trumpiana: tra le prime analisi d’intelligence richieste dal tycoon, infatti, vi era proprio un resoconto sul programma nucleare nordcoreano. Allo stesso modo, le provocazioni di Kim Jong-un hanno iniziato ad intensificarsi con l’inattesa elezione di Trump. Probabilmente, il motivo è il medesimo da una parte e dall’altra: la creazione e la demonizzazione di un nemico, per di più storico, serve a Trump a risanare la crisi dei consensi intrinseca alla sua elezione e al leader nordcoreano a riunire e mobilitare le masse al richiamo nazionalista del suo regime.
Questo rinnovato clima di tensione bipolare dovrebbe orientare le superpotenze mondiali verso una denuclearizzazione definitiva, che al momento, tuttavia, appare lontana anni luce. Al contrario, l’unica cosa che sembra concretizzarsi è la realtà distopica profetizzata da Stanley Kubrick in quel capolavoro di satira politica che è Il dottor Stranamore: così Donald Trump e Kim Jong-un sembrano minacciarsi senza cognizione di causa, come due dirimpettaie in preda a screzi condominiali, ignari della reazione a catena apocalittica che potrebbe scaturire da eventuali corse ad armi non convenzionali. È uno scenario remoto? Speriamo tutti di sì, ma qualcuno teme di no.
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