Ciò che spinge a lasciar andare l’episodio successivo non è il senso di esaltazione, il “voglio sapere che diamine succederà,” no. È il senso di vuotezza e di miseria.
Con prorompente coraggio — o biblica imbecillità — Ozark irrompe nel panorama delle serie TV in uno dei peggiori momenti del caso. Momento complicato, dico, perché da una parte abbiamo Game of Thrones che torna sugli schermi con una settima stagione, dall’altra il finale del capolavoro di Lynch (Twin Peaks). A tutto ciò va aggiunta l’infinita sequela di pessimi titoli sfornati da Netflix negli ultimi mesi (Gypsy, Glow, El Chapo, l’ultima noiosissima stagione di House of Cards, ecc.) che hanno scoraggiato il bingewatcher medio a guardare qualsiasi altra cagata: troppi prodotti di bassa qualità per un pubblico che, negli ultimi anni, è diventato sempre più esigente. In questo contesto, la serie di Bill Dubuque e Mark Williams made in Netflix riesce ad emergere, a farsi spazio tra una folla sudata e sporca danzando con una classe che raramente viene vista in questo orizzonte artistico.
Mentre cercavo di capire Ozark, cercavo anche una strada da percorrere per scrivere questa recensione. Ho interrogato l’I-Ching, uno tra i più antichi testi cinesi. Un testo che non dà risposte, ma fornisce suggestioni. È chiamato “libro dei mutamenti”: nulla è definitivo, tutto è destinato a cambiare forma. Un responso positivo è l’ombra solo l’avvisaglia della perdita (e viceversa). Non c’è stabilità nell’I-Ching, così come non c’è stabilità in Ozark, nei nostri cuori e nel mondo. È uscito l’esagramma Ku.
“Scratch. Wampum. Dough. Sugar. Clams. Loot. Bills. Bones. Bread. Bucks. Money. That Which separates the haves from the have-nots. But what is money?”
Niente sigla a ‘sto giro, solo una grande “O” — di Ozark — all’interno della quale vengono individuate 4 sezioni delimitate da una croce greca: un disegno per quadrante, un significato per disegno, un capitolo per simbolo.
La puzza di morto si sente sin dal primo secondo. Marty Byrde (Jason Bateman) è un financial advisor di Chicago. Il lavoro è okay, il matrimonio okay. Tutto è nella norma, anche troppo. Un video porno viene inviato sul suo computer. Telecamera fissa, fotografia okay, niente di che insomma. Il punto è che la graffiante milf del cortometraggio è sua moglie (Laura Linney alias Wendy Byrde). Marty non si scompone, guarderà il video altre 27 volte. In una intervista per Rolling Stone si è iniziato a parlare di questo personaggio come di una sorta di Walter White, non sono d’accordo. Il personaggio di Bryan Cranston era mosso dalla paura della morte e dal timore di lasciare i propri cari in miseria. Quello che farà Marty Byrde è dettato da qualcosa d’altro, qualcosa di più oscuro e nascosto che viene a galla lentamente, puntata dopo puntata. Si entra nel cuore di tenebra degli USA: il Midwest.
“We’re gonna make it”
I ritmi di questa serie sono concitati, la scrittura affilata. Accade tutto in un frangente, nella prima mezz’ora della prima puntata. Una chiamata nel cuore della notte, la fretta, un incontro che non può essere evitato. Una stanza, pochi personaggi, sembra ci sia Dürrenmatt dietro le battute. Il socio di Marty — tale Bruce Liddell, un idiota chiacchierone — ha fatto un casino: ha rubato otto milioni di dollari a Del (interpretato da Essi Morales), un narcotrafficante messicano che ha poco a che vedere con la stupidità del Tuco di Breaking Bad. Un flash: Marty e socio riciclano denaro per un cartello della droga, roba stile Medellin. Roba forte, anche già vista, ma non è importante. Freneticamente il cambio di scena: rimessa abbandonata, poche parole, poche pallottole. Tutti finiscono nell’acido nel giro di 4 inquadrature: otto milioni di dollari sono tanti e non è una bella cosa fare incazzare tipi come Del. È il turno del nostro Marty — ovviamente sappiamo che in qualche modo ce la farà, voglio dire, essendo la prima puntata non può lasciarci subito le penne, non siamo in GoT.
Per avere salva la vita “Byrde the normal” (qui stile Walter White) propone un affare al messicano: andare negli Ozarks — Midwest, Missouri, in culo al mondo insomma — a riciclare gli 8 milioni rubati in tre mesi. Impresa inverosimile, assurda. Del, ovviamente, accetta. Da quel momento per il “normale” Marty Byrde inizia una corsa contro il tempo, contro se stesso. Alle prese con, nell’ordine, un matrimonio non più tanto okay, il suo migliore amico e socio in affari sciolto nell’acido e un messicano incazzato a torchiarlo, il disinteressato consultant di Chicago metterà in mora la sua stessa vita.
“Life goes by real fast son, don’t waste it”
Quello che accadrà di lì a poco sarà una delle più raffinate epopee mai viste. Ozark mette insieme tutti gli elementi per costruire un prodotto adatto per farti divorare una puntata dopo l’altra: c’è il narcotraffico, morti, fucili, pistole, stronzi alcolizzati, FBI eccetera. Eppure, nonostante questi elementi, ciò che poi spinge a non chiudere il PC e a lasciar andare l’episodio successivo non è il senso di esaltazione, l’adrenalina, il “voglio sapere che diamine succederà,” no. È il senso di vuotezza e di miseria. Ozark riesce a dipingere, anzi, dà forma a quel senso di vuoto che ha divorato uomini e mondo.
Siamo in piena estate, sulle rive di un lago, i Radiohead scandiscono la ripresa fatta con un drone. Il sole c’è, si sente, ma viene costantemente nascosto. È sempre notte. Ozark è un ossimoro: da un lato il lago, le sue leggende, i boschi, i suoi fantasmi e le preghiere dell’America più idiosincratica; dall’altro lato lo yankee medio e il suo sogno americano, che ora è diventato un incubo.
“What now?”
“Wait for dark”
In questo ambiente apparentemente ostile, ma che in realtà riflette abbastanza bene l’animo umano, emerge la perversione di ognuno di noi. Una perversione che, in quel contesto, si ribalta in stabilità mentale. Il vecchio “bellum omnium contra omnes” — che in pratica vuol dire che la vita è un costante cercare di fregare e farci fregare — è qui in realtà lacerazione dell’Io, conflitto interiore che si risolve nel mondo e nei rapporti umani con tutte le conseguenze, spiacevoli, del caso. E mentre la fotografia e le luci desaturano qualsiasi colore, qualsiasi tono o emozione, Danny Pensi e Saunder Jurriaans (compositori della soundratck) intonano un inquietante, costante e ineludibile requiem che fa sprofondare il mondo in una catarsi inesorabile e agghiacciante. Tutto si congela.
“Jesus! They put up a cross”
Non resta che l’amore, anche sotto le più svariate forme (?). Decisamente no. L’amore è il grande assente, c’è solo tenerezza. È anzi nell’amore, nel coito, che troviamo la più brutale e viscerale rabbia e violenza di tutti i personaggi. Con una onestà intellettuale che poche volte si trova sul piccolo schermo, gli autori di Ozark sanno bene che se il loro intento è quello di mettere a nudo lo spirito umano, di porgere le carni di Marty Byrde e soci di fronte allo sguardo di Dio, allora l’amore non può sedersi sul divano e non può essere invitato a cena perché sarebbe un Giuda troppo scontato e fuori luogo. Dissonante.
Tre scene di sesso. La prima un film porno. La seconda è una sorta di stupro scambiato per amore. La terza è una rivincita. Insomma quello che per molti lavori narrativi è un gran bel collante — l’amore, il sentimento e queste sciocchezze che ad Ozark sono sostanzialmente bandite, oltreché inaccettabili — in questa serie quando c’è (l’amore) è un coito plastico, pura meccanica di carne e ossa.
Negli Ozarks non c’è umanità, morale o Dio. Forse, però, quel senso di vuoto e di decadimento è tutto, in realtà, umano, troppo umano. Quelle dieci puntate sono un bad trip dal quale si può uscire soltanto chiudendo Netflix, e la cosa risulta assai difficile. Ozark non è un capolavoro ma sicuramente ha da dire molto di più di tre draghi che sputano fuoco da sette stagioni.
L’esagramma Ku, “l’emendamento delle cose guaste”, rispecchia molto bene Ozark. Il commento all’esagramma dice: “Il ristagno comporta al tempo stesso l’invito e eliminarlo. Ciò che fu guastato per colpa degli uomini potrà essere risanato dal lavoro degli uomini. Propizio è attraversare la grande acqua”.
Buona visione.
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