Perché la crisi dei migranti non si risolverà a colpi di norme emergenziali
Se il pessimismo della ragione ci suggerisce che è altamente improbabile trovare una soluzione al problema dell’immigrazione, l’ottimismo della volontà ci indica che il mondo in questione è da cambiare.
La prima ed imprescindibile premessa da fare, per affrontare il problema dell’immigrazione, è sostanziale: si tratta di stabilire in modo univoco che il problema di cui parliamo è, in primo luogo, di chi migra – e diventa di altri solo secondariamente.
La premessa successiva riguarda la metodologia: la riduzione di un fenomeno epocale a slogan elettorali è assolutamente dannosa per il dibattito e per la sua risoluzione. È necessario, se si vuole affrontare adeguatamente la questione, analizzarla in ottica politico-filosofica, e non sulla base dell’istinto.
Il fenomeno delle migrazioni forzate affonda le proprie radici storiche nei processi di colonizzazione, decolonizzazione e neo-colonizzazione. Occorre, dunque, ribadire senza sosta che la povertà di quello che volgarmente chiamiamo “Sud del mondo” è, in larga parte, effetto delle politiche attuate dal suo Nord.
A partire dalla scoperta dell’America e dal genocidio dei Nativi americani (XV – XIX secolo, si stimano tra i 50 ed i 100 milioni di morti per mano dei colonizzatori) e finendo alle recenti pratiche di “esportazione di democrazia,” le vecchie e nuove forme di colonialismo sono i principali strumenti con cui ogni sistema internazionale di tipo gerarchico attua la sottomissione e la schiavizzazione dei popoli, generando l’arricchimento di pochi a discapito di molti.
La responsabilità concretamente occidentale di aver depauperato il continente africano – e non solo – si evince con chiarezza illuminante sovrapponendo la mappa delle risorse energetiche con quella delle guerre susseguitesi negli ultimi decenni.
Se nel Cinquecento, e per alcuni secoli successivi, la subordinazione suddetta si è concretizzata nella tratta degli schiavi, i metodi odierni sono più articolati. Il neo-colonialismo è tanto radicato da palesarsi sotto molti più aspetti del suo antenato; due sono sostanzialmente le sue facce, dietro le quasi si sfregano le mani i ricchi del pianeta: il neo-colonialismo finanziario e quello, per così dire, politico. Il primo è per lo più effetto della cooperazione triangolare tra oligarchie africane, politica locale e multinazionali del settore primario, i cui guadagni miliardari (a cui fanno da contraltare salari bassissimi) sfuggono alle tasse e privano, di fatto, gli Stati africani delle dovute entrate.
Il neo-colonialismo politico, ancor più subdolo, afferma i rapporti di forza militarmente: si pensi, qui, ai conflitti scoppiati nel sistema post-bipolare che hanno visto l’intervento della NATO o di alcuni suoi membri (Prima guerra del Golfo, 1990-91; Somalia 1992-94; Afghanistan 2001; Iraq 2003-11; Libia 2011). Questi interventi, ufficialmente pubblicizzati come opere di democratizzazione, hanno di fatto imposto un modello occidentale a paesi africani e mediorientali, soppiantando governi a loro ostili, e spesso democraticamente eletti, con regimi amici meglio disposti a fare gli interessi degli ex-colonizzatori. Storicamente, dunque, se è vero che il benessere socio-economico degli africani ha sempre suscitato uno scarso interesse in Occidente, lo stesso non si può dire dei loro giacimenti petroliferi.
Stabilite le responsabilità storiche dell’impoverimento del “Terzo mondo,” si può velocemente giungere ai tempi correnti. L’incremento del flusso delle migrazioni, in massivo aumento a partire dal 2011 (nel 2016 sono arrivati in Italia 181mila migranti, 10 volte quelli del 2010), e la destinazione europea di una percentuale più consistente di migranti rispetto al passato, ci fa parlare oggi di “crisi europea dei migranti.” Individuare le cause contingenti di questi spostamenti è ben più complicato che individuarne quelle storiche, poiché gli interessi odierni sono più frazionati degli scorsi decenni e a lucrare su questa crisi è un intero sistema.
Gli affari che frutta la crisi dei migranti si articolano su due livelli: i guadagni immediati e quelli sul lungo periodo.
I guadagni immediati sono ogni giorno al centro del dibattito politico italiano (spesso strumentalizzati a fini elettorali) e riguardano alcuni soggetti che agiscono nell’iter di partenza, salvataggio e accoglienza. Questi soggetti incentrano i propri business sulla disperazione e sulle esigenze di chi migra e, così facendo, contaminano il valore umanitario dell’intera categoria, oltre ad inasprire la percezione collettiva dello “straniero.”
L’aspetto più trascurato riguarda, invece, i guadagni sul lungo periodo. L’incremento dell’immigrazione è, infatti, funzionale ad un cambiamento strutturale dell’economia e perciò propagandato da chi auspica un neoliberismo sempre più sfrenato. Per quanto cinico possa sembrare, è realistico affermare che chi arriva in Europa ha visto guerre, carestie, povertà (in questa sede, non faremo alcuna distinzione tra chi scappa dalle bombe e chi scappa dalla fame) tali da essere pronto a svolgere qualsiasi lavoro a qualsiasi costo. L’equazione proposta è molto elementare: se un immigrato è disposto a raccogliere i pomodori a due euro l’ora e un italiano è disposto a fare lo stesso per dieci euro l’ora, è evidente che il “datore di lavoro” (leggasi caporale) sceglierà di assumere il primo tra i due. Questo costringerà il lavoratore italiano ad adeguarsi progressivamente al lavoratore immigrato: è in questo modo che l’immigrazione genera una pressione al ribasso dei salari. A questo modus operandi scellerato ma legale, si affianca la questione del lavoro nero, ancor più delicata se si pensa all’instabilità economica e sociale che esso genera sul lavoratore e sull’intero sistema; anche in questo caso, è certamente più agevole sfruttare un lavoratore immigrato, magari non alfabetizzato e certamente non sindacalizzato, a maggior ragione se sprovvisto di cittadinanza e non predisposto giuridicamente al lavoro regolare.
Accanto all’aspetto economico illustrato, vi è un aspetto politico e sociale non sottovalutabile, ossia quello della divisione che l’immigrazione, ancora una volta opportunamente strumentalizzata, crea all’interno del tessuto sociale. Ciò avviene soprattutto da parte della destra xenofoba, spesso col beneplacito dei canali mediatici di cui essa dispone, per lo più per raccogliere consensi tra coloro che ignorano le ragioni e gli effetti strutturali dell’immigrazione, badando soltanto alle evidenze che produce. Vale la millenaria regola del “divide et impera”, per cui l’antagonismo tra italiani e stranieri, in particolar modo nella classe lavoratrice, non fa altro che appiattire lo scontro su un piano orizzontale, generando la cosiddetta “lotta tra poveri” e giovando a chi sfrutta queste fratture (governanti, industriali); è compito di chiunque abbia coscienza verticalizzare questo conflitto, spiegando ai cittadini italiani – ed in primis ai lavoratori – che gli immigrati sono strumenti di arricchimento per terzi, come illustrato, e non loro stessi “più ricchi” per il solo fatto di essere immigrati.
Se il pessimismo della ragione ci suggerisce che è altamente improbabile trovare una soluzione al problema dell’immigrazione, l’ottimismo della volontà ci indica che il mondo in questione è da cambiare.
Il nostro dovere morale di umanità ci impone di dare assistenza e accoglienza a chiunque si imbarchi su mezzi di fortuna e rischi la vita in un viaggio estenuante per raggiungere il nostro paese, ma la logica solidarista-assistenziale non mette in luce le cause di questo fenomeno e non è, per questo motivo, capace di individuare contromisure sostenibili sul lungo periodo.
Le soluzioni alla crisi dei migranti sono di complessa e difficoltosa attuazione perché riguardano il mercato e le guerre che produce, molto prima di questa o quella riforma emergenziale. Per mettere fine alle migrazioni forzate di questo millennio è necessario combattere, con ogni mezzo a nostra disposizione (a partire dalla parola), il neocolonialismo, hle guerre di rapina che impongono cambi di regime per interessi di singole nazioni, interrompere finanziamenti e scambi commerciali con i governi che creano disordini nelle proprie regioni e, a loro volta, finanziano i gruppi terroristici. Occorre creare un dissenso forte e radicato che canalizzi verso l’alto il conflitto: non più sfruttati contro sfruttati, lavoratori contro lavoratori, italiani contro immigrati, ma sfruttati contro gli sfruttatori.
Sebbene la strada del riformismo non paia, al momento, percorribile per una completa risoluzione del problema, è certamente necessario adottare misure che limitino le speculazioni di privati sulla pelle degli immigrati; pretendere salari equiparati per mansioni simili, in modo da scongiurare l’effetto di pressione al ribasso; promuovere politiche di reale integrazione, basata sulla condivisione di valori costituzionali imprescindibili piuttosto che su religioni comuni; evitare, anche con la forza, il sorgere di nuovi ghetti ove vige l’illegalità a dominio di una sola etnia.
Abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso. Potete sostenerci qui. Grazie ❤️