Dall’italodance al cantautorato: intervista a Dargen D’Amico
“Se c’è qualche cartaccia nella scena rap italiana spero che serate come questa aiutino a fare un po’ di pulizia.”
Dargen D’Amico, all’anagrafe Jacopo D’Amico, è un rapper che nel corso della sua carriera quasi ventennale ha esplorato gli angoli più reconditi del rap italiano.
Libero dallo schema dei generi, ha dato vita a commistioni innovative che lo hanno portato a risultati apparentemente lontanissimi tra loro come Bocciofili e Nostalgia istantanea. Per dirla con parole sue:”L’ho fatto con fate e con mostri/ che tra loro fingono di non conoscermi.” Il suo ultimo lavoro, Variazioni, consiste in una raccolta di vecchi pezzi rivisitati e di inediti.
Ho l’impressione che con Variazioni tu abbia chiuso un capitolo della tua carriera, sei d’accordo?
Sì. Avevo bisogno di fare chiarezza, anche e soprattutto per me stesso, rispetto a quello che avevo fatto fino all’anno scorso. Sono passati dieci anni da quando ho cominciato a pubblicare dischi dopo che avevo fatto una pausa dalla musica anche molto profonda.
La pausa è stato il periodo dopo l’esperienza di Sacre Scuole (gruppo musicale, attivo tra il 1999 e il 2001, di cui facevano parte Dargen D’Amico, Jake La Furia e Guè Pequeno ndr)?
Sì, dopo quell’esperienza c’è stato un percorso di passaggio all’età adulta.
Insomma, tornando a Variazioni, non avevo un bellissimo rapporto con i dischi che ho fatto nel corso della mia carriera da solista. Credo, però, che sia una cosa fisiologica, che capita a tutti: tendi a chiudere un momento della tua vita e poi a fingere che non sia mai esistito. Mi sono rimesso a ragionare sui lavori che avevo fatto e, tra le tante cose che non mi piacevano, ne ho trovate alcune che non mi dispiacevano e questo mi ha aiutato a fare questo disco. Inizialmente volevo creare un disco senza inediti. Poi in realtà ho inserito degli inediti, ho scritto e ho avuto occasione di collaborare con artisti bravissimi. Però per me erano più importanti le rivisitazioni dei brani editi, mi servivano per riappacificarmi un po’.
A giudicare dalle tue influenze musicali si direbbe che hai due anime contrastanti. Come si conciliano la passione per il cantautorato e quella per l’italodance?
No, non ho due anime. Ho un’unica anima; semplicemente ho una visione della musica che non è legata ai generi ma è più legata ad alcuni momenti della mia vita e delle vite degli altri. Ho avuto la fortuna di crescere imbevuto delle scenografie cantautorali degli anni ‘70 e ‘80 quando ancora ero un infante. Poi nell’età dell’adolescenza, che è un periodo felice, in Italia c’era quel fare la musica cosiddetta da giostra, tanto rap messo su queste casse dritte, e mi è rimasto quel sapore di un periodo idilliaco. Mi divertiva allora e mi diverte ora. Soprattutto, mi divertiva quando non si faceva più e in Italia quella sonorità veniva odiata. Mi divertiva difendere le cose odiate. Poi col tempo quando è tornata ad essere amata mi ha un po’ stancato.
Paradossalmente il cantautorato, che dei due generi richiederebbe più impegno all’ascolto, l’hai più subito che cercato attivamente.
Sì, è stato la mia culla. Il cantautorato l’ho sempre ascoltato con naturalezza, come gran parte delle persone cresciute in Italia negli anni ‘80.
A proposito di cantautorato, Il ritorno delle stelle è un pezzo in cui hai il feat di tre degli artisti più cantautoriali della nuova scuola: Izi, Rkomi e Tedua. Come ti sei trovato con loro?
Loro hanno uno spirito che a me piace molto, uno spirito che, principalmente, è sviluppato sulla scrittura. Sono tre ragazzi che hanno tantissima voglia di scrivere, chiacchierare e trovare il modo di esprimersi. In alcuni momenti sono stati legati a degli episodi delle loro vite e cercano di sbloccarsi da questi aspetti del loro vissuto scrivendo, ed è esattamente la stessa esperienza che ho vissuto io quando ho iniziato con la musica e con il rap. Quindi mi trovo perfettamente in sintonia con loro.
Sempre ne Il ritorno delle stelle canti: cambiare l’Italia, io non c’ho mai creduto/ il mio artista preferito è sempre deceduto quanto è difficile fare musica in Italia?
Adesso non per essere scaramantico ma non voleva essere legato a quello che facciamo noi in Italia né, tantomeno, a quello che faccio io. Era più una questione di riferimenti personali da ascoltatore, mi riferisco a quei momenti in cui avresti bisogno del tuo cantante preferito, quell’artista che ha sempre avuto la canzone giusta al momento giusto e in quel momento lì non è più possibile e allora ti senti un pochino perduto in questo paese in cui non è facilissimo fare musica. Un paese nel quale non appena decidi di fare qualcosa che senti vicino a te vieni etichettato come un teatrante e la tua musica come un’anomalia. Io, però, sono molto simpatizzante dell’Italia. Il bello dell’Italia è che ti procura tanto amore e tanto odio, ci sono dei sentimenti molto polarizzanti.
Hai parlato di “rapper [che] scrivono per meme”, quanto in Italia si sta investendo sull’impatto visivo che possono avere i video musicali e il look dell’artista trascurando la musica?
Non mi sembra sia una questione legata in particolare all’Italia o una scelta dell’Italia; è il mondo che sta andando in questa direzione. Forse in Italia c’è una mancanza di spirito creativo e questa mancanza di spirito creativo porta alla tendenza di copiare pedissequamente ciò che fanno gli altri. In America c’è questa proposta che non è legata alla musica, una proposta, per così dire, legata a delle stilizzazioni musicali e l’Italia non fa nulla per spostarsi dai clichè che arrivano da Oltreoceano. All’Italia manca soprattutto la creatività. Riceviamo semplicemente, come è sempre successo, quello che arriva dall’estero e cerchiamo di riprodurlo.
E a volte si è un po’ troppo proni nel riprodurre ciò che riceviamo?
Questo non lo so, sicuramente se devo decidere di ascoltare un brano di rap di rapper più, diciamo così, appariscenti mi ascolto un pezzo americano perché, ad oggi, è ancora fatto meglio in tutti i sensi. Ascoltare l’equivalente italiano non mi offre nessun valore aggiunto.
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