L’allucinante Festa dell’Unità di Minniti

Minniti si è lanciato in una serie di affermazioni inesatte, di destra e applaudite dalla platea PD.

L’allucinante Festa dell’Unità di Minniti

Minniti si è lanciato in una serie di affermazioni inesatte, di destra e applaudite dalla platea PD.

Ieri sera il Ministro dell’Interno Marco Minniti è stato a Milano per una fugace visita alla Festa dell’Unità cittadina, che si tiene in questi giorni in un rispolverato Scalo Farini. Siamo andati ad assistere anche noi, per vedere più da vicino il principale referente — almeno a livello teorico — dell’accoglienza italiana ai profughi.

Chi è Marco Minniti? Quando è stato nominato Ministro dell’Interno da Paolo Gentiloni, il 13 dicembre 2016, in pochi conoscevano la sua figura e la sua storia politica. Minniti proviene dalla sinistra del Partito democratico. È un ex DS, un uomo d’apparato che in passato è stato molto legato a Massimo D’Alema, costituendone uno dei più importanti bracci destri.

Negli ultimi vent’anni ha accumulato una serie di incarichi defilati ma estremamente delicati nel potere del paese: sottosegretario alla Presidenza del Consiglio presso i governi D’Alema 1 e 2, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti nel governo Letta. Più volte Ministro ombra è responsabile sicurezza del PD. Fino ad arrivare alla promozione a Ministro dell’Interno, con il governo Gentiloni.

Il Ministro è un personaggio minuto, completamente calvo, rasato con cura. Vedendolo di persona sembra essere un sessantenne a cui piace tenersi in forma, visto che non dimostra un filo di grasso. Forse deve mantenere un immagine adatta alla sua fama di uomo legato ai servizi segreti. Il Ministro, infatti, è da anni molto legato all’ambiente dei servizi italiani, avendo anche contribuito nel 2009 alla nascita della fondazione ICSA — un “centro di analisi ed elaborazione culturale” su sicurezza e servizi segreti, appunto, con presidente onorario Francesco Cossiga.

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Sul palco di ieri Minniti è arrivato con solo pochi minuti di ritardo, sedendosi in una folta schiera di politici milanesi: gli assessori Rozza, Majorino e Orlandi, più il destrissimo giornalista Roberto Arditti a moderare il dibattito. Il Ministro, com’è logico, è arrivato accompagnato da una fitta scorta personale, che impediva ai giornalisti e ai fan troppo calorosi di avvicinarsi eccessivamente al palco.

L’incontro è cominciato con Majorino, convinto che il Ministro “ci abbia messo la faccia” sulla questione migrazione, e una serie di bordate dell’assessore Rozza — molto combattiva nel richiedere più aiuto da parte dello stato nella gestione della crisi: i migranti che delinquono vanno rimpatriati, e comunque dove li metto in attesa del rimpatrio? Forse dichiarazioni un po’ esagerate, come l’individuazione dei cittadini italiani come “soggetti deboli” nelle dinamiche migratorie, uscita che fa dubitare che l’assessore abbia mai ascoltato un migrante raccontargli la storia del proprio paese e del proprio viaggio.

Il Ministro avrebbe dovuto fermarsi poco e tornare a Roma con l’aereo delle otto, ma si è reso conto subito di essere in ritardo sulla tabella di marcia. “Potrò restare un po’ di più,” ha strizzato l’occhio alla platea. E ha iniziato a parlare, facendo una battuta sul colore rosso della cravatta di Arditti.

Si vede che Minniti è un vecchio uomo d’apparato: il modo di parlare molto ragionato, le battute salaci — ma non troppo — alla D’Alema, la dizione da palazzo romano che non lascia tradire quasi delle origini calabresi. La parlantina pacata fa scendere la tensione in sala dopo i rimbrotti dell’assessora Rozza, dimostrando una buona consapevoleva politica. E, agganciandosi ai suoi dubbi sui rimpatri, esordisce con quello che la platea — a quanto pare — vuol sentirsi dire: “Diallo, il giovane della Guinea Bissau che qualche giorno fa ha ferito con un coltello il poliziotto in stazione Centrale a Milano in questo momento è su un volo che sta venendo rimpatriato.” E il pubblico erompe in un applauso.

Il pubblico è tra le cose più inaspettate di questo dibattito. Siamo alla Festa dell’Unità, eppure tutte le ovazioni scattano appena vengono pronunciate parole come “sicurezza”, “rimpatrio”, “controlli”. Specie quando le pronuncia il Ministro. Osservando la platea, si può vedere che è quasi e equamente divisa tra chi gode pazzamente al pensiero di questi concetti e chi, invece, sul volto tradisce un vago disagio. Come l’assessore Majorino.

Segue un piccolo panegirico autocompiaciuto sul PD, d’obbligo visto il contesto, e rivolto alla platea: “Un partito che è il risultato non di una ma di varie culture, un partito che per sua natura non può rimanere ai margini ma si deve sporcare le mani nella società.” Man mano che il Ministro parla, esibisce in modo sempre più chiaro la sua retorica, che non capita spesso di sentire — Minniti è notoriamente restio ad essere intervistato o a parlare di sé — ed è inaspettatamente immaginifica e un po’ mistica, con uno stile di esposizione sì pacato ma — si potrebbe dire — visionario.

“Questa è la forza del PD: di fronte alle sfide che abbiamo di fronte dobbiamo essere capaci di suonare contemporaneamente — questo è il problema! — con-tem-po-ra-neamente più tasti di una tastiera. In Italia ci sono quelli che suonano soltanto un tasto ma un tasto non fa armonia: fa cacofonia.”

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Il Ministro sembra essere a suo agio a conversare soprattutto con Arditti, col quale, pur essendo di schieramenti politici differenti, sembra conoscersi da tempo. Stimolato dal giornalista e sentendosi libero di spaziare un po’ sul tema, si lancia nella sua visione della migrazione, come fenomeno epocale per l’Italia e per l’Europa:

“Per affrontare il problema bisogna riconoscere tre caposaldi” — pausa a effetto, faccia seria, tono profetico: “Primo caposaldo: dobbiamo comprendere che noi ci troviamo di fronte a flussi che arrivano da un altro continente. L’altro continente si chiama Africa. Posso dirvi una cosa? L’Africa è lo specchio dell’Europa.”

Ed ecco che, quasi senza che gli ascoltatori se ne rendano conto e senza nemmeno pronunciare le quattro parole magiche, introduce per l’ennesima volta il famigerato concetto di “aiutiamoli a casa loro.” “Se l’Africa starà bene in futuro, l’Europa starà bene in futuro. Il primo problema è affrontare la questione in Africa, investendo su quei paesi perché ci sia uno sviluppo, una cessazione dei conflitti, classi dirigenti degne di questo nome. In questo momento abbiamo classi dirigenti che prendono quelle risorse per arricchirsi loro e affamano il proprio popolo.”

Difficilmente il Ministro ignora che, in paesi come la Nigeria, i soldi che queste cattivissime classi dirigenti si intascano non vengono da altri posti che dall’Occidente, e in certi casi anche dall’Italia stessa, come nel famoso caso delle tangenti ENI al governo nigeriano. Per non parlare poi dell’ultimo secolo e mezzo di colonialismo vero e proprio, che magari è proprio il motivo principale per cui questi paesi sono così malmessi.

A voler essere un po’ più pignoli, si può contestare anche l’affermazione del Ministro sul fatto che “siamo di fronte a flussi che provengono da un altro continente.” Basta consultare la più elementare statistica per accorgersi che non è vero: i migranti dall’Africa sono una piccola percentuale degli stranieri residenti in Italia. Nel nostro paese risiedono un milione e mezzo di romeni, che negli anni passati sotto il governo Berlusconi sono stati vittima sistematica di razzismo istituzionale. Ma nonostante siano infinitamente di più rispetto ai 98000 senegalesi oggi in Italia nessuno si sogna di imbastire conferenze e discorsi simili su di loro.

Questa mistificazione, di cui nessuno o quasi in realtà sembra rendersi conto, è in realtà la radice di tutte le paranoie e le panzane che circolano per il paese negli ultimi anni. Il Ministro dell’Interno però non può essere all’oscuro di tutti questi dati. Perché contribuisce a questo oscurantismo? I casi sono due: o è comunque convinto di ciò che dice, e in tal caso manca di contatto con la realtà, o semplicemente sta vendendo frottole al paese e alla platea, alimentando il razzismo. Quale che sia il caso, il pubblico della Festa dell’Unità sembra apprezzare il piglio del Ministro — anzi, sembra quasi chiederne ancora: ancora più sicurezza, ancora più proclami di rigidità, ancora più sottraiamo terreno alla destra.

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Il momento più assurdo di tutto il discorso si è toccato forse sulla formazione delle classi dirigenti dei paesi africani, un suo pallino fisso. “Un giorno è venuta da me un’organizzazione non governativa, e mi ha chiesto: Minniti, noi cosa possiamo fare? E io gli ho detto — lo dico anche a voi, soprattutto a Pierfrancesco, che si occupa molto di queste cose.” Majorino ascolta immobile con un mezzo sorriso tirato. “Voi dovete prendere un pezzo di quei ragazzi che vengono qui e dovete formarli. Formarli nel migliore dei modi possibili. Dovete formarli come classe dirigente di quei paesi dai quali provengono: e poi dobbiamo lavorare insieme per rimandarli là.” Applausi scroscianti, grida di bravo!, euforia tra il pubblico. Majorino vorrebbe sprofondare nella poltrona.

Ma chiaramente non basta questo, perché “un grande paese come l’Italia non può restare passivo: ha l’obiettivo di governare l’immigrazione, e se la vogliamo governare dobbiamo andare dall’altra parte del Mediterraneo. Il 13 gennaio sono andato prima in Tunisia e poi a Tripoli: questo è il cuore della questione, che si risolve strategicamente dall’altra parte.” Dichiarazioni un molto forti, visti i precedenti tra Italia e Libia, in cui l’invasore in genere è l’Italia. Fatto sta che secondo Minniti attualmente il traffico di esseri umani è “l’unica industria funzionante in Libia,” almeno secondo quanto ha potuto osservare durante un incontro con i sindaci di alcune città libiche come Sabratha, Kathroun ed altre coinvolte nel traffico di esseri umani. “Il sindaco di Sabratha, il primo a prendere la parola, ha illustrato la questione con delle slide. E alla fine mi ha detto: Ministro dell’Interno italiano, aiutateci a liberarci dal traffico di esseri umani e ad aiutare i migranti che sono a Sabratha.”

Per il Ministro Minniti va fatto un patto con i sindaci libici, dunque, perché “non possiamo girarci dall’altra parte.” Segue un’indegna frecciatina alle ONG e ai loro non chiari interessi, lanciata su istigazione di un sogghignantissimo Arditti. E poi, per fortuna, alcune dichiarazioni che smorzano i tonio che stava prendendo la serata: “non c’è correlazione tra estremismo e terrorismo. C’è n’è tra mancata integrazione e terrorismo.” Un confortante sì allo ius soli, su imbeccata di Majorino. E l’esclusione categorica di un intervento armato, appunto, sulla sponda opposta del Mediterraneo — un attimo, ma quindi qualcuno ci stava pensando?

Poi, di punto in bianco, il Ministro se ne va. Gli agenti della scorta e qualche agente in borghese formano una specie di catena umana davanti al palco, mentre Minniti esce da una porta sul retro del capannone e sale su una macchina per sfrecciare verso Linate. Ai giornalisti non viene concesso nemmeno un minuto per porre delle domande al Ministro dell’Interno.

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