Abbiamo intervistato Murubutu al Filo Sound Festival.
Chi ascolta per la prima volta Murubutu capisce subito di trovarsi di fronte a qualcosa di radicalmente diverso: non c’è l’ostentazione di forza tipica dell’hip hop, né gli attacchi contro i rivali, né la vita di strada, ma soprattutto storie personali, intime, trasposte in un rap fittissimo di suggestioni e rimandi letterari. Nell’universo immaginifico di Murubutu c’è la letteratura avventurosa di Jules Verne — dai cui libri è mutuata la parola marabutto, traslitterazione da un termine africano che significa “sciamano,” colui che guarisce con il potere delle parole — ma anche la storia antica e recente, come ne La collina dei pioppi, che racconta l’amore tra un partigiano e una ragazza di paese, o in due canzoni che si potrebbero tranquillamente definire poemetti didascalici, La battaglia di Lepanto e L’armata perduta del re Cambise. Ma bastano i titoli dei dischi, da romanzo ottocentesco, e le copertine che mimano la grafica delle edizioni dei classici della letteratura, a far capire che Murubutu — nome d’arte di Alessio Mariani, professore di storia e filosofia in un liceo di Reggio Emilia — non ha mai avuto intenzione di fare “soltanto” del rap.
Abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola con lui poco prima della sua esibizione al Filo Sound Festival, nella magnifica cornice della Cava di Roselle, vicino a Grosseto, in una serata che avrebbe visto alternarsi sul palco principale altri due artisti che si distinguono per la propria declinazione personalissima di rap e cantautorato — Willie Peyote e Dargen D’Amico.
Ciao Alessio, come va?
Abbastanza bene, grazie. Anche perché sto facendo quasi tutte date al mare.
Ora sei in tour per promuovere il tuo ultimo disco — L’uomo che viaggiava nel vento (E altri racconti di brezze e correnti) — e stai girando anche in festival musicali di una certa importanza. A Milano sei stato anche in un tempio della musica indie come il MiAmi.
Sì, sono stato anche al Molecole di Pavia. È la prima volta con questa frequenza, e sono molto contento. Quest’album è piaciuto particolarmente, e dopo tanti anni di attività il mio nome ha cominciato a girare, quindi mi si sono aperte un po’ di possibilità in più.
Tornando indietro nel tempo: quando hai cominciato a essere Murubutu?
Si tratta di un’era geologica fa! Ho iniziato a fare rap al tempo delle posse, nei primi anni ’90, a Reggio Emilia. Poi ho sviluppato un percorso artistico mio che mi ha portato a distanziarmi un po’ dalla concezione del rap più diffusa, per cercare una via personale nell’uso dei quattro quarti.
A questo proposito, ti senti una mosca bianca della scena rap italiana? Spesso vieni definito un outsider.
Io rivendico la mia appartenenza alla scena hip hop, anche se a volte non vengo riconosciuto come artista hip hop. Non direi mosca bianca, ma all’interno di questa scena sicuramente ho la caratteristica peculiare di proporre una curvatura fortemente narrativa dei testi, cantautorale. Sono stato il primo storyteller sistematico, diciamo così.Hai qualche punto di riferimento in particolare al di là dell’Atlantico?
Dal punto di vista tecnico, negli Stati Uniti guardo soprattutto a Beanie Sigel e tutta la scuola che si muove attorno a lui. Ma dal punto di vista dello storytelling i miei maestri sono i cantautori italiani degli anni ’70 come De Andrè, Guccini, Gaber.
Si discute sempre molto della dignità letteraria di certi generi musicali. Nel 2014 un’analisi quantitativa sui testi dei rapper statunitensi ha dimostrato che Aesop Rock, il Wu Tang Clan, Kool Keith, i Roots e vari altri artisti utilizzano un vocabolario più ampio di quello di Shakespeare. Ma basta pensare anche solo a tutto il battibecco per il Nobel alla Letteratura assegnato a Bob Dylan.
Sul Nobel a Bob Dylan io sono d’accordissimo, non so voi. Ne parlavo anche ultimamente con dei colleghi che insegnano italiano, del fatto di riconoscere dignità letteraria alla forma canzone e inserirla all’interno della proposta didattica. In buona parte sono d’accordo. Se vengono riconosciute la narrativa, la poesia e il teatro, perché la canzone no? È una forma espressiva che ha tutta la dignità letteraria delle altre.
Del resto tutta la poesia antica aveva un accompagnamento musicale.
Sì, esatto, c’è una lunghissima tradizione in questo senso. Nella marea di proposte della modernità questo carattere si è un po’ perso, ma chissà, magari un giorno nei libri di italiano per le scuole ci sarà anche una canzone rap.
Tu hai attraversato tutta la storia dell’hip hop italiano. Ora la nuova scena sta vivendo un momento d’oro, soprattutto tra i giovanissimi — scommetto che anche i tuoi studenti per la maggior parte ascoltano trap.
I miei studenti no nello specifico, ma sì, sicuramente ci sono tanti giovani che ascoltano trap.Cosa ne pensi?
La trap a me sinceramente non piace, ma è solo un aspetto delle nuove scuole più comunicato degli altri. In realtà c’è una marea di proposte nuove, da parte delle nuove generazioni, che spaziano ben oltre la trap. che non usano l’auto-tune e fanno contaminazioni con altri generi e anche proposte concettuali interessanti. La trap va semplicemente di moda, ma nell’underground ci sono tantissime proposte.
Quindi tu comunque hai in programma di rimanere legato all’old school, anche a livello musicale, e di stile.
Se mi stai chiedendo se userò mai l’auto-tune, la risposta è no (ride). Poi magari progredire e contaminazioni nuove, sicuramente.
Le storie dei tuoi dischi: come le scegli, come le trovi?
Per la maggior parte racconti raccolti sul territorio, che io romanzo e produco in rima. Oppure sono ispirate da libri che leggo, e da lì li sviluppo liberamente, oppure me le invento di sana pianta.
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