Come chiunque abbia fatto politica e vissuto un’esperienza simile sa bene, la scissione di un partito è un’esperienza intensa e drammatica
Domenica 15 dicembre 2013, accadde un fatto singolare: Matteo Renzi venne eletto segretario del PD. Era il primo segretario del partito che smaccatamente contrastava la corrente di chi si considerava erede del PCI, preferendo l’area di centro quella di tradizione grossomodo democristiana. La sua vittoria fu schiacciante, con il 67,6%, e furono in molti, da subito, ad adombrare il rischio di una scissione.
“La sinistra del partito non riuscirà a resistere a Renzi per molto tempo,” dicevano. O se ne andranno loro, o il segretario — che, come si è visto anche in questi giorni, non ama granché il dissenso tra i propri sudditi iscritti — troverà un modo per metterli alla porta. Invece, a parte la fuga esistenziale di Pippo Civati, la sinistra del partito democratico è rimasta all’interno del PD per altri tre lunghi anni. Con gli esponenti principali, i custodi dell’eredità comunista: Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, le bandiere rosse nascoste negli armadi dei circoli del partito in provincia, le redivive Feste dell’Unità, eccetera.
Ma alla fine la scissione c’è stata. L’ex segretario Bersani, insieme al già citato D’Alema e a personaggi come Roberto Speranza, hanno abbandonato il PD per formare un nuovo soggetto politico: MDP, detto anche Articolo Uno. Un partito a sinistra di Renzi, tentato dall’alleanza con Sinistra Italiana e Giuliano Pisapia, che spera di ottenere un risultato ambizioso alle prossime elezioni: almeno entrare in parlamento.
Come chiunque abbia fatto politica e vissuto un’esperienza simile sa bene, la scissione di un partito è un’esperienza intensa e drammatica. Da un lato c’è una gran voglia di ricominciare, di partire col piede giusto nella nuova lotta che si delinea, accompagnati da un sentimento di rivalsa; dall’altro c’è il dolore — di spezzare o affievolire numerosi legami personali con chi non compie lo stesso passo, di ammettere che il proprio percorso politico è stato in qualche misura sbagliato, di lasciare qualcosa per cui si è lavorato con passione e fatica.
Per questi e altri motivi, non tutti i militanti PD che pure sono interessati al progetto di Bersani hanno deciso di lasciare il proprio partito attuale per fare quello che gli sembra un salto nel buio. Per questa loro indecisione danno varie giustificazioni: poche, tuttavia, sono davvero ragionevoli.
Si sta tutti insieme nel partito
Quando si entra nel Partito Democratico — almeno, fino a pochi anni fa era così — si veniva assorbiti all’interno di un macchinario politico molto inclusivo, che dava l’impressione di essere qualcosa di simile a una grande famiglia ideologica. Era un’eredità del PCI, il grande partito di massa dei lavoratori italiani, che prescriveva — tra le tante — una regola: l’Unità. La cosa più importante è stare uniti ed essere l’unico partito di riferimento della propria area politica. Il che vuol dire anche: quando non si è d’accordo con la maggioranza dei propri compagni, si sta nel Partito e si prova a imporre la propria posizione all’interno di esso. Le scissioni non sono ammesse.
A ricevere questa impostazione sono stati soprattutto che militano nella sinistra del Partito: per assurdo, proprio coloro che avrebbero dovuto guidare la scissione. Come Pierluigi Bersani, che proprio da qui ha mutuato il famoso concetto della “ditta.” Ma oggi, questa impostazione così inquadrata e inclusiva ha ancora senso?
Se senza dubbio “l’Unione fa la forza,” arrivano anche momenti in cui è necessario dire basta, per un banale motivo: il partito non è più quello da cui questa impostazione è stata ereditata, in parte anche per volontà del segretario Matteo Renzi, ma soprattutto per meccanismi iniziati da precedenti segreterie, in primis quella Veltroni, primo segretario del Partito stesso. L’ex sindaco di Firenze, infatti, ha sempre ritenuto più adatta la formula di partito “leggero” di Veltroni, all’americana, l’opposto del partito inclusivo di tradizione comunista — salvo servirsene a scopi propagandistici e per provare a ingraziarsi i militanti alle Feste dell’Unità. Questa sua preferenza col tempo si è solo accentuata, e oggi si può dire che detesti ancora di più quanto resta dell’impostazione ex-PCI.
Prova ne è il discorso che citavamo qualche riga fa, le recenti uscite come “chi non è d’accordo può andarsene.” Renzi non ha nessuna intenzione di confrontarsi con le altre aree residuali del PD. Anche se ovviamente la scissione vera e propria è stata messa in atto da Bersani e D’Alema, a molti è sembrato che il segretario Renzi stesse facendo di tutto per favorire l’inesorabile e liberarsi così di quella spina nel suo fianco sinistro.
Non ha molto senso restare e provare a cambiare le cose dall’interno. Un po’ perché lo stesso segretario non vede l’ora di mettere alla porta chi non la pensa come lui, un po’ per i motivi che seguono, soprattutto il prossimo.
Orlando è una truffa
Al congresso sono state presentate tre mozioni programmatiche con a capo un candidato alla segreteria: Renzi, Orlando, e Emiliano. Su quest’ultima eviteremo caritatevolmente di soffermarci, mentre val la pena parlare di Andrea Orlando.
Se si parla con un militante medio dell’ala sinistra del partito, Andrea Orlando sembra essere la soluzione a tutti i mali non solo del partito ma anche del mondo, un faro di ragionevolezza e sinistra sorridente in un PD sempre più a destra e autocratico. Andrea Orlando è figlio della stessa area politica che ha prodotto D’Alema, Bersani, e tutti gli ex militanti PCI. Ciononostante, quando i suoi padrini politici se ne sono andati, ha preferito restare all’interno del PD “per cambiarlo dall’interno,” come sopra. Al congresso, Orlando ha raccolto un risultato piuttosto magro, in nessun modo paragonabile a quello di Renzi: eppure sembra tenuto in considerazione dai suoi adepti come il capo di un partito nel partito.
Al di là di queste pie illusioni, bisogna anche provare a svelare il bluff dietro la figura di Andrea Orlando. Per cominciare, Andrea Orlando è il co-firmatario del famigerato decreto Minniti–Orlando, uno dei provvedimenti più retrogradi varati in Italia negli ultimi anni in fatto di immigrazione, di cui purtroppo abbiamo già diffusamente parlato. Questo decreto, che come vedremo è da solo una delle ragioni per dissociarsi in modo ufficiale da questo partito, reca la firma di chi viene fatto passare per la luce della sinistra.
A questo, si potrebbe aggiungere che Andrea Orlando è una figura priva del benché minimo carisma politico e che ha avuto un ruolo importante nel far sì che la scissione nascesse zoppa fin dal principio, facendo sì che la fetta di partito raccoltasi intorno a lui decidesse di non uscire, rimanendo vittima dell’indecisione e del congresso — al quale ha partecipato pur essendo perfettamente conscio di fare da cavallo di troia e da agnello sacrificale al tempo stesso.
Ma perché, allora, ha partecipato?
Cadreghe e poltrone
Un vecchio adagio politico recita: mai abbandonare i luoghi di potere una volta raggiunti. Chi legge the Submarine sa quanto la nostra linea editoriale sia lontana dall’antipolitica e dall’idealizzazione del dilettantismo alla guida del paese, tanto caro a partiti come il Movimento 5 Stelle: è giusto che chi amministra uno Stato venga ben retribuito per il compito che svolge — ovviamente deve svolgerlo in modo competente — e amministrare, avere potere non è per forza un male. Solo raggiungendo e conservando le poltrone politiche giuste è possibile fare buone cose per il popolo dal quale si è stati eletti e impedire che altri commettano atti nefandi — come firmare il decreto Minniti-Orlando.
In quest’ottica, è comprensibile che chi è arrivato a posizioni di prestigio grazie al PD non voglia abbandonarlo, in quanto senta sia di dover abbandonare la propria carica in seguito all’abbandono del partito – fatto non scontato ma possibile e soggetto alla coscienza di ognuno – oppure sia convinto che se uscirà dal partito per andare tra le fila di MDP automaticamente non verrà rieletto.
In effetti, le previsioni elettorali non sono così rosee per il nuovo partito della sinistra italiana. Se si votasse oggi, secondo gli ultimi sondaggi, il partito di Bersani e D’Alema entrerebbe a stento in Parlamento, raggiungendo il 3%. Ben poco, se si considera che anche le previsioni meno rosee danno il PD sopra il 20%. Chi lascia il partito di Renzi per approdare nel nuovo soggetto politico è perfettamente consapevole che sta mettendo a serio rischio tutta la propria carriera politica, tutto quello per cui ha lavorato magari nel corso di decenni.
Vanno considerati, però, alcuni fattori sia pratici che ideali. In primo luogo, un membro della minoranza di sinistra non è affatto sicuro della propria sopravvivenza politica nemmeno nel PD attuale: il segretario, come detto, è schierato su posizioni sempre più conservatrici e per farsi candidare, o eleggere, o nominare per qualche poltrona rilevante è necessario rispettare il suo verbo — o, almeno, dimostrarsi burrosi e concilianti nel proprio disaccordo.
Questo porta inevitabilmente a una considerazione: se si resta nel PD, si deve essere pronti a rinunciare in buona parte se non completamente alla coerenza: soprattutto quella verso se stessi. Un gran numero di persone nel PD è in buona fede. Questo, però, non vuol dire che il gioco valga sempre la candela, e in questo caso, la candela, è arrivato il momento di spegnerla.
Il PD è un partito di destra
Questa è forse la ragione principe per la quale una persona coerente, con un rispetto verso se stessa più forte dello stoicismo di partito o del timore di perdere la propria posizione dovrebbe lasciare il Partito Democratico. Come abbiamo illustrato in un articolo di qualche giorno fa, il PD ormai è un partito di Centrodestra: sia sotto il profilo economico, soprattutto dopo il jobs-act, che soprattutto sotto quello sociale e dei diritti umani. Fino a prima del referendum del 4 dicembre, il PD esprimeva uno dei pochi governi europei che si potessero definire non ostili ai migranti, un partito attento ai diritti umani.
Oggi non è più così dopo una lunga serie di scivoloni, con i quali il segretario Renzi ha deciso di avvicinarsi al populismo più leghista e superficiale, sposando il mantra dell’“aiutiamoli a casa loro.” Mentre il governo Gentiloni — dietro cui tra l’altro c’è ovviamente una guida dello stesso Renzi — ha varato il decreto Minniti-Orlando, che come abbiamo detto è uno dei fatti più gravi successi in Italia degli ultimi dieci anni. Restare nel PD oggi vuol dire rendersi complici di queste politiche razziste, come appunto ha fatto Andrea Orlando.
A questo punto, è necessario un piccolo appunto anche per coloro che sono usciti dal partito all’inizio di quest’anno, fondando MDP. Spesso, a queste persone, viene posta una domanda: perché ora e non, ad esempio, prima della firma del Jobs Act, una delle norme più conservatricimai approvate da un governo che si dichiara e si dichiarava di centrosinistra? In genere, a questa domanda gli interessati abbozzano con un po’ di imbarazzo. Forse la risposta, anche per loro, sta nelle tante ragioni elencate in questo articolo.
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