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Lo scorso 6 maggio, un ragazzo del Mali si è suicidato impiccandosi dalla massicciata della stazione Centrale di Milano, verso via Ferrante Aporti.

Il ragazzo si chiamava Adamà Kanouté — l’identificazione è stata difficoltosa in quanto non aveva documenti con sé — e ha lasciato due mogli e cinque figli. Abbiamo parlato con Antonella Freggiaro, la volontaria dell’associazione Abarekà che si è occupata di far tornare la salma di Adamà alla famiglia.

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Adamà Kanouté, foto via twitter @bezker1

Conoscevate il ragazzo?

No. Abbiamo appreso anche noi la notizia su Milano Today: dato che noi operiamo nel paese da circa vent’anni ci siamo immediatamente interessati per capire di chi si trattava, per capire se era una persona che abbiamo conosciuto o con la quale potevamo avere dei contatti. Ho parlato col commissariato di Gorla, che però mi ha detto che non potevano darmi notizie in quanto stavano ancora cercando di identificare con precisione la salma. Noi siamo in contatto con l’haut conseil des malienes en Italie, un ente che raggruppa tutte le associazioni di maliani presenti in Italia. Tramite loro abbiamo appreso che si trattava effettivamente di un ragazzo del Mali, di 31 anni, e ci hanno incaricati di tutte le operazioni relative al rimpatrio del cadavere.

Quindi avete pagato di tasca vostra?

Il comune di Milano, tramite Arca, ci ha dato un contributo di 2500 euro. Inoltre abbiamo ricevuto contributi da varie Onlus che operano in Mali e da persone che a vario titolo hanno donato. Alla fine siamo riusciti a raccogliere 6500 euro che sono serviti al rimpatrio del corpo e al trasporto fino ad Abajà, il comune d’origine del ragazzo. Abbiamo anche donato 2500 euro alla famiglia, visto che Adamà lascia due mogli e cinque figli.

Abbiamo parlato con la famiglia di giù — abbiamo dei volontari che quando è arrivata la salma a Bamako si sono fatti carico di andare fino al suo villaggio — e quindi abbiamo capito le condizioni in cui queste persone stanno vivendo. L’unica fonte di sostentamento era questo ragazzo che è venuto a mancare ma su cui tutti speravano molto. Dirò di più: due giorni dopo che giù è arrivata la notizia della sua morte, uno della comunità maliana di Milano è stato chiamato da un familiare di Adamà, che gli ha detto di non poter più sostenere le spese della famiglia e di provvedere in qualche modo: era già parecchio che chiamava Adamà per dirgli di fare in modo di mandare dei soldi. Uno cosa deve fare? Cioè: o delinquere o soccombere.

Dunque Adamà era fortemente sotto pressione a livello economico. Come mai non riusciva a inviare soldi in patria? Non aveva trovato lavoro qui?

No. Bisogna mettere in rilievo la disperazione di queste persone, che affrontano dei viaggi allucinanti, devono seguire tutto l’iter dell’immigrazione non trovano lavoro, pur avendone bisogno disperatamente. Se poi c’è una famiglia alle spalle con delle necessità impellenti queste persone vengono quasi insultate dai propri parenti: pensano che sono in Europa come in questo caso da più di un anno senza mandare neanche un euro a casa e, dunque, li hanno dimenticati, che se ne fregano di loro. Queste persone non hanno nessun mezzo per far fronte a questa situazione e può capitare che arrivino a gesti drammatici.

Questo è importante: abbiamo dovuto rimpatriare il cadavere perché purtroppo in questi paesi senza corpo si sarebbe potuto dare adito a delle supposizioni tipo è scappato, non s’è più fatto trovare, ecc. Era un po’ anche per ridargli dignità, per raccontare la sua storia.

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Il ragazzo era all’hub di via Sammartini — uno dei principali centri per richiedenti asilo di Milano, a poca distanza dal luogo del suicidio?

No, il ragazzo era in un centro di Modena.

Come mai era qua in Centrale?

Questo non lo sappiamo. Pensiamo fosse qui a cercare lavoro. Non sappiamo per certo perché lui, a Milano, non conosceva nessuno, non aveva contatti. La comunità dei maliani di Milano non lo conosceva. Pensiamo anche che non volesse far sapere chi era perché si è tolto i documenti.

A Modena invece avete parlato con qualcuno?

Con un cugino, che era sempre qui con lui. Si chiama Broulay Kanouté, parla molto poco l’italiano e molto male anche il francese — è quello che poi è venuto a riconoscere la salma. Visto che Adamà non aveva documenti con sé ci voleva per forza un parente a dire che era effettivamente lui. La stessa cosa l’ha dovuto fare prima di chiudere la bara, perché senza un parente non l’avrebbero chiusa.

Sta andando di moda il modello SPRAR sull’accoglienza. Però se queste persone sono già isolate, mettendole un po’ qua e un po’ là in un paesino rischiano di isolarsi ancora di più.

È così. Considera che la maggior parte degli africani che emigrano, provenienti soprattutto da quella zona tipo Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, sono tutte persone abituate a vivere in comunità molto strette: quello per loro è una grande forza, perché ci si aiuta l’uno con l’altro. Mentre da noi in occidente l’individuo vale in quanto tale, in questi paesi vale come parte di una comunità: tu non esisti se non all’interno della tua famiglia, all’interno del tuo gruppo. Per cui dividere molto la gente aumenta il trauma, se così si può dire. Pensiamo che sia molto importante iniziare a lavorare sui drammi che queste persone si trovano a vivere.

Penso che ci siano anche varie situazioni diverse. Un ragazzo di vent’anni, per quanto alle spalle abbia situazioni drammatiche, non ha grosse responsabilità verso la sua famiglia ed è più stimolato a cercare di rifarsi una vita. Il caso di Adamà era diverso: il maggiore dei figli ha sette anni, il minore ne ha due. In più ti posso dire che la zona sua, che è la zona di Kayes, tra il Mali e il Senegal, è una zona di forte migrazione. é una zona molto arida, dove ci sarebbero dei giacimenti d’oro che però non non vengono del tutto sfruttati dalle multinazionali straniere — in questo caso Sudafrica e Svizzera. Si è diffusa una specie di corsa all’oro, per cui anche i terreni che potrebbero essere non dico fertili ma coltivabili vengono distrutti perché la gente continua a cercare l’oro — io ho visto delle foto e sono davvero dei gironi danteschi. Per cui c’è anche un impoverimento del suolo.

Avete ricevuto qualche tipo di supporto dai governi italiano o maliano?

Dal governo italiano, zero. La cosa che noi troviamo scandalosa è che all’aeroporto, per le formalità doganali, abbiamo dovuto pagare. Abbiamo chiesto all’ambasciata malian che ci donassero questi soldi — soprattutto perché noi volevamo darli alla famiglia di Adamà. E loro hanno detto che no, eravamo tenuti a pagare. Diciamo che per loro sei soggetto a delle tasse e quelle tasse le devi pagare anche se rientri da morto.

Il comune ci ha dato 2500 euro. Noi siamo in Milano senza frontiere. Tramite un tesserato di Rifondazione ha contattato Basilio Rizzo e Rizzo ci ha messo in contatto con l’ARCA. Io personalmente lo stimo molto, tutto quello che può fare lo fa.

Non c’è niente di strutturato purtroppo. L’impressione che si ha da fuori è che l’accoglienza e i rapporti con chi migra in Italia vengano gestiti da volontari, e che le istituzioni abbiano buon gioco a delegare compiti a persone ed enti come voi.

Lo stato ci marcia tantissimo. Però posso dire che è stato molto importante avere l’aiuto delle altre associazioni che operano in Mali. Perché molto spesso anche la politica delle onlus e ong italiane è fare qualcosa nei paesi d’origine perché ci sono progetti finanziati e poi qui voltarsi dall’altra parte. Io questo lo trovo veramente indegno. Se hai un’emergenza in casa di una persona di quel paese non puoi girarti dall’altra parte e continuare a fare azioni laggiù, perché allora si capisce benissimo qual è il tuo interesse.


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