Perché parlare di “migranti economici” non ha senso
Quanti sono i migranti economici che arrivano sulle coste siciliane? Secondo Gentiloni, l’85%. È una percentuale che è piaciuta a tutti, da Minniti a Salvini. La realtà, però, è in disaccordo.
Quanti sono i migranti economici che arrivano sulle coste siciliane? Secondo Gentiloni, l’85%. È una percentuale che è piaciuta a tutti, da Minniti a Salvini. La realtà, però, è in disaccordo.
Dall’infelice intervento di Macron — che poi non si è fermato — fino alla boutade di Gentiloni al G20 lo scorso 8 luglio —
«Siamo tutti consapevoli della differenza giuridica tra rifugiati e migranti economici. Ma questi sono oltre l’85% degli arrivi e quindi gestire e contenere i flussi è e sarà sempre più una sfida europea e globale.»
— in Italia, e in Europa, la figura del “migrante economico” è entrata al centro del dibattito politico. È la fase successiva nel trattare il fallimento continentale dell’emergenza umanitaria che attanaglia il Mediterraneo. Dopo aver raccontato che potevamo affrontare il problema collaborando tutti insieme — e dopo non averlo fatto — l’unico seguito logico è spiegare perché non lo si è fatto, o, nel caso dell’Italia, perché si è deciso di svoltare, di abbandonare quasi ogni pretesa di decenza, probabilmente l’unico aspetto che aveva reso degni di nota a livello internazionale — ma soprattutto: umano — i due precedenti governi del Pd, Letta e Renzi.
Il numero di Gentiloni è un mistero — se si riferiva alla media generale, i suoi dati come vedremo erano grandemente inesatti, se si riferiva ai numeri italiani, anche rispetto ai dati dell’Interno, si tratta comunque di una grossolana semplificazione.
No: 85 percento. Da dove viene questo numero? Non si sa. La distinzione esasperata tra migranti economici e rifugiati, in realtà, è un giochetto retorico di bassa lega. In questi casi non si parla di migranti “economici” come gli italiani nel Regno Unito o negli States — ma di persone che rischiano di morire di fame in, mettiamo, tre anni, invece che sotto le bombe, in tre secondi. Si tratta comunque di situazioni emergenziali, situazioni per cui l’Occidente tra l’altro ha spesso responsabilità più o meno dirette. Ciononostante, nei giorni immediatamente successivi al G20, ci si è concentrati soprattutto su questa distinzione artificiosa — perché è, a tutti gli effetti, una soluzione al problema: bollare tutte le persone a cui rifiutiamo asilo politico come non meritevoli della nostra carità. Non importa per quel 40% di donne nigeriane che sbarcano sulle coste della Sicilia: la politica, su questo fronte, non ha il tempo di confrontarsi con la realtà del continente.
Guidati dal professor Brad Blitz della Middlesex University a Londra, Alessio d’Angelo, Martin Baldwin-Edwards, Eleonore Kofman e Nicola Montagna hanno investigato sul campo, parlando con Ong, rifugiati, con chi è boots on the ground a Malta, in Grecia e in Sicilia.
Il risultato è un paper di 31 pagine che dovrebbe far vergognare l’intera classe politica europea: chi si rifiuta di assistere, chi assiste scalciando e lamentandosi, e chi abusa delle tragedie di disperati per strappare voti dalle mani di cittadini spaventevoli. Potete trovarlo qui.
Quali sono i risultati della loro ricerca? Che a livello sistemico, i dati sono il contrario di quanto detto da Gentiloni — di nuovo, non sappiamo di cosa stesse parlando, perché non l’ha specificato.
Dei 1.008.616 migranti registrati nel 2015, più dell’80% proviene da paesi in condizioni di guerra: Siria, Afghanistan, e Iraq. Il 25% sono bambini.
Quindi no, ci dispiace: non è in corso un’invasione, non stanno arrivando palestrati soldati dell’ISIS ma bambini in fuga dalla guerra. Queste sono le persone che quando si parla di regolare i flussi migratori si decide di lasciar morire. La biopolitica — la politica che decide chi vive e chi muore — è una cosa da quando esiste la politica: oggi, semplicemente, ha smesso di portare il conto delle proprie vittime sul bavero.
Durante le loro ricerche, la squadra guidata da Blitz ha intervistato più di 850 persone. Tra di loro, il 17% è scappato da situazioni di lavori forzati o schiavitù. Il 49% delle persone intervistate in Grecia è stato costretto a fuggire quando il conflitto armato ha raggiunto letteralmente le loro case. A Malta, il 53%.
I ricercatori attestano come numero di migranti economici — per i quali comunque è valido il discorso di poche righe fa — un’incidenza di circa il 18%.
I pericolosi invasori che arrivano sulle coste siciliane? Il 23,2% erano pescatori e allevatori, il 18,5% negozianti, il 15% meccanici, elettricisti, addetti alle riparazioni, c’è perfino un 5% che prima della guerra si occupava di quaternario.
Sono anche persone mediamente colte: più del 20% ha finito le superiori, e il 3,7% anche l’università. Tantissimi, l’università, non l’hanno potuta iniziare: gliele abbiamo bombardate quando erano troppo giovani, se arrivano qui che hanno poco più di vent’anni. Perché arrivano qui? Il 63,6% perché non aveva alternative: non conoscevano nessuno che li portasse in altri posti. Solo il 17% arriva in Sicilia, rispetto alla Grecia (43,3%) o Malta (1,9%) perché sia una destinazione più semplice, o più accogliente.
Se si analizzano i percorsi, i viaggi e gli arrivi di queste persone, qualsiasi presunzione di differenziazione tra rifugiati e questa — ripetiamo, minoranza – di “migranti economici” cade rapidamente a pezzi. Tantissime delle persone che arrivano in Sicilia dalla Libia non stavano andando in Sicilia: stavano andando in Libia. Nel paper, un migrante senegalese racconta:
“Sono arrivato qui [in Sicilia] ma non era un’opzione, per me. La mia prima scelta era di andare in Libia… E mi sono trovato bloccato in Libia, non potevo più tornare a casa. Vi posso garantire che tra di noi, rifugiati o ‘migranti economici,’ il 95% di noi si trovano qui contro la propria volontà. Una volta arrivati in Libia è molto meglio attraversare il Mar Mediterraneo che tornare indietro. Non ci sono alternative: o si fugge, o si muore.”
Di questi “migranti economici” che arrivano passando dalla Libia, ma prima dal Sahara, le condizioni del viaggio descrivono drammaticamente la gravità della situazione in cui versano. Il 50% è rimasto bloccato almeno una volta durante il viaggio, a causa di arresti o detenzioni ingiustificate. Il 17% sono stati costretti a lavori forzati per ripagare i propri trafficanti. Un uomo dalla Costa d’Avorio, intervistato, ha raccontato di essere rimasto bloccato per un anno e nove mesi in una prigione libica, un altro ha rischiato la morte dopo essere stato preso a coltellate da un poliziotto, sempre in Libia.
È una leggenda anche quella del miglior collocamento in Italia rispetto alla Grecia e a Malta: l’82,5% delle persone raggiunte dai ricercatori in Italia sono costrette in centri per rifugiati e migranti, rispetto al 31,1% della Grecia e il 18,9% di Malta. Sia in Grecia che a Malta i programmi di collocamento in appartamenti condivisi sono molto più efficaci, così come gli alloggi popolari. (Appartamenti condivisi — Grecia, 13%; Italia, 2,8%; Malta, 35,8%. Appartamenti — Grecia, 10,4%; Italia, 1,8%; Malta, 9,4%)
Questi numeri — verificati e pubblicati da enti di profilo incontestabile — erano pubblici da ventitré giorni quando durante il G20 l’Europa mediterranea riscopriva tutta insieme la xenofobia. Dalle “condizioni inumane” di Elliniko ai programmi degli stati e delle Nazioni Unite, è impossibile disegnare un unico profilo per la qualità della vita dei rifugiati che arrivano sulle coste europee. Analisi come questa sono vitali: sono questi numeri, freddissimi ma incontestabili, che mettono in luce come nient’altro non solo l’inadeguatezza delle politiche dei paesi europei, ma, ogni giorno di più, la loro attiva, belligerante, crudeltà.