Hikikomori: la riconquista del fuori

Che cos’è la sindrome Hikikomori? Chi la affronta in Italia? Un reportage esclusivo di the Submarine

Hikikomori: la riconquista del fuori
tutte le foto di Marco Mazzetti e Indro Pajaro

Malattia, sindrome, fenomeno: è difficile dare un nome a quello che sta succedendo da anni nella società giapponese e nel mondo.

Hikikomori” deriva da hiku (indietreggiare) e komoru (ritirarsi) e si utilizza sia per definire chi si costringe all’isolamento sociale sia il fenomeno in sé.

Negli anni si è parlato di migliaia, c’è chi addirittura parla di un milione di persone (ndr. Saitō, 2001) che arrivano ad autoescludersi dalla vita quotidiana rifiutandosi di uscire per lavorare, fare spese, vedere conoscenti.

Non si tratta di un fenomeno recente, anche se negli ultimi tempi si è tornati a parlarne per la diffusione di questi comportamenti non solo entro i confini nipponici e per l’adozione del neologismo inglese NEET (1999) – “Not (Engaged) in Education, Employment or Training” – per definire coloro che alla soglia dei trent’anni non sono inseriti in nessun contesto lavorativo, scolastico o formativo.

La parola Hikikomori ha origine tra gli anni Ottanta e Novanta quando lo psichiatra giapponese Tamaki Saitō cominciò a notare un pattern nei comportamenti di alcuni pazienti genericamente codificato come “Sindrome da Apatia.”

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Con l’aumentare del numero di casistiche si decise di trovare un nome per questa silenziosa moria sociale perché, a differenza dei NEET, il fenomeno è sempre stato analizzato sotto il profilo psicologico e psichiatrico.

Nel 2002, Mami Suwa e Koichi Hara dello Tsu City College riferiscono che si può parlare addirittura di due forme di Hikikomori, difficili da distinguere a livello diagnostico: una legata ad un quadro clinico caratterizzato da stati depressivi, schizofrenia, disturbi ossessivi-compulsivi e “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” (DPS)  e una in cui i pazienti non paiono affetti da nessuna patologia, definito “Hikikomori Primario”.

Si può parlare di Hikikomori Primario se il periodo di autoreclusione supera i sei mesi e se in tale lasso di tempo la persona ha visto l’azzeramento dei contatti con il mondo esterno, compresi i propri famigliari e uno stravolgimento nel proprio ritmo circadiano.

La sindrome colpisce soprattutto giovani uomini tra i 19 e i 30 anni, divisi nella società giapponese in due situazioni caratteristiche, che sembrano essere alla causa del fenomeno.

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  • Amae (da amaeru: presumere la benevolenza di un’altra persona da cui dipendiamo e desideriamo essere amati) termine giapponese che descrive un fenomeno assai complesso che possiamo riassumere come una dipendenza dall’altro dove i nostri desideri e bisogni si esprimono come una richiesta, solitamente egoistica, che questi vengano esauditi sapendo che l’altro in questione lo farà in maniera indulgente – da qui l’espressione dipendenza indulgente – (ndr. Smith – Takako, 2000).
    Il prototipo di questo tipo di rapporto simbiotico è quello del bambino con la propria madre che si tradurrà nell’ambiente scolastico col dualismo giovane studente – senpai (compagno più grande preso come esempio, degno di ammirazione e rispetto che suscita timore riverenziale nei più piccoli), fino all’ambiente lavorativo in età adulta.
  • Kyōiku mama (da tradursi con mamma istruzione), espressione dispregiativa dello stereotipo della madre moderna che all’interno della competitiva società giapponese spinge il figlio a superare con successo tutti gli esami. I giovani vivono la scuola come un vero e proprio inferno (shiken jigoku, inferno degli esami) da cui dipende tutto il loro futuro.

Lo stigma intorno al fenomeno rende complicato un tempestivo ed effettivo aiuto: molto spesso le famiglie non vogliono riconoscere il problema e coloro che trovano il coraggio di chiedere aiuto finiscono per arrendersi perché la mancanza di una campagna di supporto attiva rende difficile l’accesso alle informazioni, soprattutto nelle zone scarsamente popolate.

Secondo il dottor Mitsuru Yamashima, professore alla Chuo University, il fenomeno Hikikomori ha visto innalzarsi l’età media delle persone colpite, soprattutto nelle zone sottopopolate del paese – persone colpite in giovane età che non riescono a tornare alla vita anche oltre i 40 anni d’età e persone che diventano Hikikomori in tarda età. Non si tratta più quindi di un fenomeno assimilabile solo ai giovani e se contiamo l’isolamento di alcune aree il tutto diventa ancora più drammatico.

In questo scenario, però, è bene parlare anche del ruolo fondamentale di alcune comunità nella reintegrazione dei soggetti a rischio, esempi concreti di come il Giappone ha affrontato il problema con successo.

Uno di questi è il caso della prefettura di Iwate, colpita dal terremoto del 2011. Dopo il tragico evento sono stati chiamati psichiatri per portare supporto psicologico alle popolazioni duramente scosse. Durante questi incontri, il professor Mitsuru si accorse della silenziosa presenza di Hikikomori. La circostanza eccezionale ha fatto sì che persone con problemi pregressi al trauma da terremoto ricevessero un aiuto che probabilmente, in altre circostanze, non avrebbero avuto.

Si è venuta a creare così una reazione a catena di richieste d’aiuto: in diverse comunità della prefettura non colpite dal terremoto, le famiglie con membri colpiti da Hikikomori, membri delle commissioni di salute pubblica e volontari interessati al problema hanno chiesto l’intervento di specialisti approfittando dell’ondata di interesse.

Si cominciò così a diffondere l’idea di creare, all’interno delle comunità stesse, spazi e momenti che potessero invogliare gli Hikikomori al ritorno alla vita, dove ogni abitante è parte attiva della reintegrazione dei soggetti, il tutto accompagnato da un supporto professionale medico.

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Esemplare per molte comunità è stato il caso della cittadina di montagna di Fujisato, nella prefettura di Akita che prima del programma di reintegrazione vedeva circa 100 Hikikomori su circa 4000 abitanti, la metà di questi nell’allarmante fascia di età dei 40 anni.

Per queste persone la speranza di un aiuto era pari zero, contando il doppio isolamento, quello personale e quello dovuto alla mancanza di vie di trasporto quali ferrovie e autostrade tali da rendere la zona in balia delle proprie forze.

Come nel caso della prefettura di Itawe, si arrivò alla scoperta del fenomeno nella comunità per vie traverse: gli assistenti sociali incaricati di portare assistenza casa per casa agli anziani si accorsero della presenza di diverse persone in età lavorativa (tra i 18 e i 54 anni) che non lasciavano mai l’abitazione, né di giorno né di notte.

La comunità ha cominciato così a creare programmi specifici che potessero aiutare gli Hikikomori a sentirsi a proprio agio anche al di fuori delle proprie abitazioni e a ritornare attivi, con possibilità lavorative sotto forma di periodi di prova di diversa durata così da riabituarli alle attività quotidiane, a piccoli passi.

La vera forza di queste iniziative è stato l’obiettivo prefissato e cioè quello di creare un contesto migliore in cui vivere per tutti, non solo per gli Hikikomori, così da evitare nuovi casi di isolamento e creare una rete di solidarietà in cui ogni membro possa sentirsi importante e non certamente un peso.

Grazie a questi programmi di supporto collettivo e al rinnovato mindset della popolazione, le persone affette da Hikikomori possono trovare lo slancio necessario a superare l’isolamento perché sanno che, una volta usciti, ci sarà un’intera comunità pronta ad accoglierli e possibilità reali da cui partire per ricostruire la propria esistenza.

Il caso della cittadina di Fujisato è fondamentale per affrontare il problema qui in Europa, dove negli ultimi anni la rapida diffusione del fenomeno ha costretto alla creazione di apposite strutture.

È il caso, per esempio, della Cooperativa Sociale Onlus Hikikomori, specializzata nell’analisi e nella terapia di nuove dipendenze comportamentali e problematiche relazionali, attiva dal 2012 a Milano.

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Tra i servizi offerti, uno in particolare rende questo centro unico nel suo genere in Italia. Qui dentro, infatti, un’equipe di sociologi e psicologi si occupa ogni giorno di assistere ragazzi Hikikomori. “Attualmente stiamo aiutando una ventina di ragazzi, – spiega Valentina Di Liberto, responsabile della Cooperativa  – di cui il 90% è maschio, insieme alle rispettive famiglie. La disparità tra sessi non è casuale, poiché sono i figli maschi quelli più propensi a sviluppare l’ambizione di diventare perfetti in ogni aspetto della vita, sviluppando quel senso di incertezza noto come ‘trauma del futuro’; le femmine Hikikomori, al contrario, vengono considerate quasi un problema minore. C’è poi un’altra causa che porta allo sviluppo della sindrome e riguarda episodi di bullismo subìti in particolare durante le scuole medie.”

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Il primo campanello d’allarme è il rifiuto di andare a scuola: è la fase precoce della sindrome, che nel giro di qualche anno potrebbe diventare autoisolamento. I genitori sono portati erroneamente a considerare internet l’unica causa di questo disagio. In realtà, come spiega anche la psicologa Rita Marianna Subioli, “rappresenta solo un incentivo a chiudersi in casa ma non è una dipendenza, perché un ragazzo privato di una connessione alla rete ha maggiori probabilità di sviluppare una psicopatologia rispetto a un coetaneo che riesce comunque a comunicare con il mondo esterno”. In molti casi, infatti, Internet è l’unico contatto che gli Hikikomori hanno con persone estranee al loro nucleo familiare.

Per un genitore convivere con questa situazione è traumatico. Chiara (nome di fantasia) è una mamma che ha visto suo figlio attraversare e superare questa sindrome. “I primi sintomi sono apparsi intorno ai 12 anni. Ho iniziato a preoccuparmi dopo aver ricevuto le segnalazioni degli insegnanti: mi hanno informata che mio figlio trascorreva l’intervallo da solo senza alzarsi dal banco.”

I problemi si sono protratti fino ai 15 anni quando è arrivato l’isolamento completo. “Il vero problema – ci racconta – è emerso dopo il primo anno di scuola superiore con assenze e comportamenti sempre più preoccupanti. È stato a quel punto che mi sono informata e sono venuta a conoscenza della sindrome di Hikikomori. Pochi mesi dopo mio figlio ha abbandonato completamente la scuola: ero ormai diventata cosciente del problema.”

L’errore da evitare in un contesto del genere è sottovalutare questi primi sintomi e confondere l’essere fannullone con le reali difficoltà dei figli. “Come tutti i genitori – continua Chiara – ho provato a togliere la connessione alla rete, l’ho sgridato e spinto a uscire dall’isolamento. Io e altri genitori abbiamo poi collaborato con un gruppo di psicoterapeuti e attivato una serie di relazioni protette che mio figlio potesse frequentare. L’intervento sul piano scolastico e delle frequentazioni ha permesso il suo pieno recupero psicologico e sociale. Oggi, da ormai un anno, mio figlio è finalmente guarito.”

L’iter da affrontare è stato comunque snervante e pieno di difficoltà: “Inizialmente, per noi genitori le prospettive si erano fatte drammatiche. Nostro figlio si preparava a diventare un disadattato, incapace di vivere nella società e impossibilitato a portare avanti un normale progetto di vita. Abbiamo chiesto immediatamente aiuto, trovando uno studio di psicoterapeuti che hanno dedicato con passione la propria professionalità alla ricerca della soluzione migliore per il ragazzo.”

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Tuttavia, non sempre si riesce a intervenire con tempestività. Trattandosi di una patologia poco conosciuta e nemmeno ufficialmente riconosciuta a livello medico in Italia, molti tendono a trascurare il problema e ad accorgersene quando è ormai tardi. È a questo punto che decidono di rivolgersi ai terapeuti della Cooperativa: “Ci occupiamo di casi a Milano e nel circondario – prosegue la dottoressa Rita Subioli – recandoci direttamente nelle case degli Hikikomori dopo aver svolto un colloquio con i genitori per capire il livello di criticità.” Le sedute durano circa un’ora: in caso di progetti attivi tramite fondazioni, enti e il Comune di Milano che danno sostegno alla onlus, il supporto terapeutico è gratuito, altrimenti la tariffa è di circa 50 euro all’ora.

In queste sedute sono fondamentali le motivazioni e la fiducia, perché i terapeuti cercano di rompere il falso equilibrio che giustifica l’auto-reclusione e non sempre riescono ad agganciare un soggetto così allacciato al suo ambiente. Solitamente, infatti, serve almeno un anno per vedere concreti segni di miglioramento.

Oltre ai progetti della Cooperativa di Milano, esistono attività di gruppo e di condivisione delle proprie esperienze in community online create ad hoc: tra queste c’è Hikikomori Italia, nata nel 2013, che si pone come obiettivo quello di favorire il dialogo tra soggetti affetti dalla sindrome

Il fenomeno è in crescita in Italia, come dimostrato dalle richieste di intervento in cooperativa: “Purtroppo è impossibile dare dei numeri attendibili – rivela Di Liberto – perché chi soffre di Hikikomori tende a non parlarne. Mancano inoltre strutture di cura adeguate sul territorio, ma per fortuna abbiamo alcuni collaboratori in diverse regioni pronti a offrire consulenza immediata in caso di necessità. In questo lavoro servono passione e attitudine al servizio; è qualcosa che devi sentire dentro, che ti gratifica e ti fa realizzare sia a livello umano e professionale. Comporta tanta fatica, ma al tempo stesso ti restituisce tantissimo. La cosa più bella sono i ringraziamenti delle persone che ti mostrano riconoscenza per averle fatte stare bene.”


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