Avevo incontrato l’uomo dietro la maschera e tutto quello che avevo visto negli anni era diventato ancora più vero, ancora più attuale, proprio perché avevo dato forma al personaggio.
Era il 2010, avrò avuto su per giù sedici anni. Iniziavo, con mia grande gioia, a scoprire le varietà culinarie che Milano aveva da offrire oltre alla pizza della domenica e il kebab delle due di notte. Un giorno, uscito da scuola, chiesi a mia madre di accompagnarmi al ristorante giapponese Osaka, uno di quei locali invisibili alla fiumara di gente che quotidianamente attraversa corso Garibaldi. Il ristorante si trova infatti in una galleria laterale molto spartana e poco appariscente, in pieno stile nipponico — il che, a mio avviso, gli conferiva ancora più fascino.
L’ingresso del locale era molto accogliente e silenzioso, le pareti e il soffitto schiacciati trasmettevano allora una sensazione di intimità che difficilmente i ristoranti riescono a dare. Immerso in quell’atmosfera quasi monastica, mi trovai davanti una tunica che sembrava nascondere non una, ma due, tre persone. Era Paolo Villaggio.
Il mio primo incontro con Paolo Villaggio, o meglio il suo alter ego, risaliva alla cassetta dell’Unità di Fantozzi del 1975, diretto da Luciano Salce. Fin da piccolo avevo divorato le disavventure del Ragionier Ugo, complice quello stile che mescolava così bene la slapstick comedy dei film muti e la comicità parlata dell’immortale Totò.
Dal biliardo al tennis, dalle feste di capodanno alle poltrone di pelle umana, mi colpiva – ma forse non ne ero del tutto consapevole – la facilità con cui Fantozzi riusciva ad abbattere i luoghi comuni del grande sogno all’italiana. Ben presto avevo fatto mie una serie di litanie tratte dai personaggi di Villaggio: “La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, “Prenderò l’autobus al volo”, “Che fa ragioniere? Batti?” e molte altre citazioni che mi aiutarono negli anni a esorcizzare l’inesorabile avanzata della tv spazzatura e l’oscurantismo berlusconiano.
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Ora me lo trovavo davanti, immenso maciste della comicità italiana. Stava pagando il conto e, non so perché, forse spinto dal fatto che mia madre era nata a Imperia e lui a Genova, sussurrai (me lo ricordo come fosse ieri): “Mà, digli qualcosa in dialetto.” Speravo in una fantozziana reazione, in un segnale che sotto la tunica e i chili di troppo ci fosse ancora quello spirito (ir)riverente e tragico, capace di trasformare il momento in risata.
Paolo Villaggio non è solo Fantozzi, anzi il suo lascito va ben oltre la sola figura dell’uomo qualunque. Scrittore, teatrante, autore e attore, trapezista in bilico tra commedia e tragedia, i suoi film e i suoi personaggi hanno provato a risvegliare l’Italia dal torpore culturale che la stava divorando.
Il tempo non era stato clemente con lui e lui con il tempo, “la morte deve essere come il ventre materno, non lo devi ricordare, deve essere il nero assoluto” diceva con sbeffo.
Intanto io, ingenuo, immaginavo il suo pranzo come quella famosa scena nel ristorante giapponese tra Fantozzi e la signorina Silvani. “Le regole dei ristoranti giapponesi sono trrremende (con tre r ndr): la prima è che il personale parla esclusivamente giapponese stretto…”
Il selfie non aveva ancora preso possesso delle nostre vite, dunque non azzardai la richiesta di una foto. Non riuscii a dire nulla e fare nulla, lo vidi uscire seguito dalla moglie e da un entourage di altre due o tre persone, infine ordinai il mio sashimi misto di 6 tipi assortiti di pesce pregiato. Ma quell’incontro – inesistente per lui, immortale per me – è diventato il ricordo più significativo che ho di Paolo Villaggio, ben oltre la corazzata Kotiomkin e il mega direttore galattico.
Avevo incontrato l’uomo dietro la maschera e tutto quello che avevo visto negli anni era diventato ancora più vero, ancora più attuale, proprio perché avevo dato forma al personaggio. Mi mancherà Fantozzi, ma ancora di più Paolo Villaggio, che ho conosciuto un giorno in un ristorante di Milano.
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