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L’Italia è l’ultimo paese dell’Ue a dover ancora introdurre una legge contro la tortura.

L’onta per l’ordinamento legislativo italiano perdura tutt’oggi, nonostante si discuta alla Camera un disegno di legge sulla tortura il testo rischia di essere controproducente e  ― che venga approvato o meno ― l’Italia risulta impresentabile anche questo 26 giugno.

Era il 1988 quando il parlamento italiano ratificò la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, in cui gli Stati firmatari si impegnavano a prevedere nel proprio ordinamento un reato di tortura, ma i vincoli del diritto internazionale non hanno sopperito alla mancanza di volontà del legislatore, così non hanno mai prodotto effetti sull’ordinamento italiano.

La problematica relativa al reato di tortura in Italia si è poi affermata prepotentemente nel 2001 durante i fatti del G8 a Genova ― nella scuola Diaz e a Bolzaneto ― a seguito della “più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, per usare la celebre definizione di Amnesty. Si tratta di operazioni di tortura di massa perpetrate dalle forze dell’ordine italiane su individui innocui. Le forze dell’ordine che manganellarono a sangue chi riposava accampato pacificamente nella scuola Diaz non solo sono rimaste impunite, ma addirittura a molti colpevoli è poi stato permesso di fare una notevole carriera ― questo per via della legislazione italiana che non prevede un reato di tortura.

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Corso Gastaldi, Genova. 22 luglio 2001

In particolare il caso Cestaro si è concluso con la clamorosa sentenza del 2015 dalla Corte di Strasburgo che condanna l’Italia per tortura e per l’inadeguatezza del sistema normativo che non è in grado di rendere giustizia alle vittime, ma nonostante ciò le direttive della Cedu non hanno prodotto effetti tangibili sulla giustizia italiana e il parlamento ha perseverato con riluttanza a porvi rimedio.

È stato un duro colpo per un paese democratico e insospettabile di tali violazioni dei diritti umani, così, dopo il caso Diaz, l’Italia aveva proposto ai sei ricorrenti per le torture di Bolzaneto un accordo: un compenso di quarantacinquemila euro in cambio del silenzio a Strasburgo ― che equivale al ritiro del ricorso in modo da non far procedere la Corte con un’altra sentenza per tortura verso l’Italia. Ma questo non le ha risparmiato un’ulteriore condanna: settimana scorsa il giudizio della Corte di Strasburgo è stato replicato conformemente alla sentenza di due anni fa ed i diritti estesi ad altre ventinove vittime facendo gravare sull’Italia un’altra esecrazione e rendendo più che mai urgente una soluzione.

Il rimprovero più forte che viene mosso al nostro paese è quindi di non avere ancora una legge sulla tortura e ― dopo trent’anni tra trattati, sproni e sentenze ― l’Italia tenta ora di porvi rimedio. Oggi infatti in Aula viene sottoposto ad approvazione il disegno di legge concernente il reato di tortura. La data scelta per la discussione del ddl è simbolica: ogni anno il 26 giugno ricorre la giornata internazionale contro la tortura. L’intenzione di avvalersi dell’occasione è chiara: non lasciare trascorrere un altro 26 giugno senza reato di tortura, ma  ― nel tentativo di silenziare le pressioni ― si sta discutendo di una legge potenzialmente insidiosa.

Il ddl in discussione alla Camera è stato infatti definito “legge truffa,” ossia una legge di facciata che nasconde problematiche non indifferenti e rende chiaro come l’Italia non stia affatto cercando di convergere con il diritto internazionale in materia di tortura, nonostante il tentativo di disciplinarla.

Il ddl è stato approvato al Senato il 17 maggio scorso con larga maggioranza, ma il presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, promulgatore e primo firmatario della versione iniziale del disegno di legge si è chiamato fuori insieme ai senatori di Sinistra Italiana ― astenendosi dal voto. Manconi considera il testo in discussione lontano dagli obiettivi a cui deve ambire una legge contro la tortura: “Il primo giorno della legislatura presentai un ddl sulla tortura e quanto accaduto in questi anni è stato lo stravolgimento di quel testo che ricalcava lo spirito profondo che aveva animato le convenzioni e i trattati internazionali sul tema.”

Tra le voci più forti ad opporsi al disegno di legge una rete di vittime di tortura, attivisti, avvocati, giudici e giuristi si è esposta precisamente lanciando un appello.

Numerosi i firmatari, fra i quali Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che si batte tenacemente da quando ha perso il fratello per l’introduzione del reato di tortura e ― affatto sollevata da questo ddl ― persevera con pervicacia lanciando una petizione anche autonomamente.

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L’associazionismo e le Ong più affermate in materia hanno aspramente criticato il ddl denunciando che “tutela solo la polizia,” in particolare Amnesty International Italia e Antigone ― che si occupano di tortura da prima dei fatti di Genova ― si sono manifestate deluse: “con rammarico prendiamo atto del fatto che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti.”

Forti ed eloquenti le espressioni usate da Giovanni Maria Flora, vice presidente dell’Ucpi: “sembra quasi che si sia voluto varare un testo tanto per dire che formalmente si adempie ad un obbligo di natura internazionale per evitare ulteriori sanzioni ― con la consapevolezza che tanto si tratta di un testo così pasticciato, esangue e tortuoso nell’enunciazione da renderne davvero difficile l’applicazione.”

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Nils Muižnieks

Il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, ha recentemente inviato una lettera rivolta al parlamento, esprimendo anch’egli le sue preoccupazioni e sottolineando che l’Italia “deve modificare il testo della legge contro la tortura in discussione al Parlamento, perché nella sua forma attuale contiene una definizione del reato e diversi elementi in disaccordo con quanto prescritto dagli standard internazionali.”

Muižnieks, così come gli oppositori italiani, ricalca i passaggi critici del ddl tali da rendere il reato di tortura ambiguo e di ardua applicazione citando primo fra tutti il fatto che si sia completamente travisata la concezione di tortura riconosciuta internazionalmente.

Nel ddl la tortura viene considerata reato comune, non viene quindi inquadrata per ciò che è ― un crimine commesso dallo Stato e da chi agisce per suo conto ― ma è posta alla stregua di tipologie di reato perpetrabili da privati.

Ad oggi, puntualmente, nei casi di violenze da parte delle forze dell’ordine il giudice si trova nelle condizioni di non poter chiamare la tortura col proprio nome in quanto inesistente nell’ordinamento penale e, nella maggioranza dei casi, di dover perciò perseguire questi fatti in qualità di reati minori per lesioni o percosse, naturalmente con pene assai inferiori a quelle per tortura. Questo ddl, pur inasprendo le pene, non è una soluzione al problema in quanto, nonostante tratti esplicitamente di tortura poi, nei contenuti, essa viene definita come una tipologia di reato comune per violenza.

Tra le ragioni dell’inadeguatezza di questo ddl viene citato dai firmatari dell’appello il deliberato aggiramento linguistico volto a creare ambiguità. Tra i passaggi più criptici emerge l’esclusione del reato di tortura “nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Viene inoltre accuratamente perimetrato l’ambito delle torture, circoscrivendole alla reiterazione di “più condotte” o ancora, in riferimento ai traumi psichici vi è la l’opinabile scelta di specificare che essi debbano essere tangibili e verificabili, senza chiarire le modalità. Tra le conseguenze che più si temono vi è che i singoli atti di tortura che non consistono in “più condotte,” i traumi psichici non “verificabili” e i casi in cui il giudice personalmente può ritenere una violenza conforme ad una “legittima privazione” continueranno a rimanere impuniti.

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Le precisazioni di questa legge risultano illegittime e pericolose in quanto, se si parte dai principi imprescindibili delle convenzioni internazionali si deve tenere conto che la convenzione delle Nazioni Unite recita “qualunque atto,” proprio per evitare che si definiscano tipologie di tortura specifiche e aggirabili con reati più lievi, giochi di attenuanti e aggravanti che ricondurrebbero il tutto a pene irrisorie.

Ambiguità a parte l’incoerenza più esplicita che non ammette giustificazioni risiede nel fatto che il testo preveda la possibilità di prescrizione del reato di tortura, tale da posizionarlo alla stregua di reati minori e, trascorso il giusto lasso di tempo, rendere impossibile perseguire i responsabili. Il reato di tortura deve essere imprescrittibile: lo dice la Convenzione Onu, la Corte europea dei diritti umani, ma così vorrebbe una giustizia che non può permettersi di lasciare la violenza di Stato impunita.

Il rischio di un testo poco chiaro e di difficile interpretazione è di aumentare la discrezionalità dei giudici che deontologicamente non dovrebbero avere possibilità di essere una discriminante di giudizio, ma dovrebbero agire semplicemente secondo il principio di legalità, ossia attenendosi alle leggi da semplici esecutori. Il rischio da non sottovalutare è di creare terreno fertile per quella “cultura di connivenza tra le forze di polizia e un pezzo della della magistratura” che testimonia Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

C’è chi afferma che una legge, con i suoi difetti, è meglio che niente ― ma in questo caso il discorso va capovolto: la pericolosità nell’approvazione di questo testo risiede nel fatto che l’Italia sta attuando un compromesso al ribasso che può dare la parvenza di aver posto rimedio, ma rischia di perseverare con un’ingiustizia più subdola, questa volta legittimata da una legge ― invece che dalla sua assenza.