Dietro la vetrina di Radio Raheem
Una conversazione con Marco Aimo e Michele Rho di Radio Raheem, la nuova webradio “di quartiere” nata dietro una vetrina di via Corsico.
Da circa tre mesi, passando in via Corsico — una piccola traversa dell’Alzaia Naviglio Grande, dove c’è il Libraccio — può capitare di notare un dj che mette musica dietro la vetrina di un bar, immerso nel beat, perlopiù incurante delle persone che pranzano o bevono il caffè nei tavolini davanti.
È la vetrina di Radio Raheem, una nuova webradio che proprio della visibilità e della presenza fisica ha fatto la sua cifra stilistica. Una radio sulla strada e di strada — a questo allude anche il nome, preso in prestito da un personaggio del film Do The Right Thing di Spike Lee — in cui la barriera trasparente della vetrina, più che a separare, serve a unire lo spazio dello studio a quello della città. Ma c’è anche la vetrina virtuale di Facebook, dove tutti i set live della radio sono trasmessi in diretta.
In pochi mesi di attività, Radio Raheem ha già raccolto attorno a sé uno stuolo abbastanza nutrito di appassionati, grazie alla giusta combinazione di estetica street e curatela musicale attenta. Con solide radici black, la selezione musicale spazia dalla chillwave alla techno, dal neo-soul al funk. Il groove non manca mai, e dalla consolle di via Corsico è già passata una lista di nomi di tutto rispetto, da Milano e non solo: Jolly Mare, Bassi Maestro, Uabos, Turbojazz, solo per citarne alcuni.
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Giovedì 15, dalle 18.30 alle 23, la radio festeggerà l’inizio delle trasmissioni, presentando ufficialmente il progetto alla città, con un live dei 291out e dj set degli artisti che ormai si possono definire habitué.
Non una vera propria inaugurazione, però.
“Ormai non si fanno più le inaugurazioni, le cose cominciano ad esserci e basta,” spiega Michele, “Ce lo diceva Ambrogio, che si è occupato del lato marketing —
“L’espressione esatta è stata: teasing is dead,” precisa Marco.
Michele e Marco sono Michele Rho, regista e co-fondatore della radio, e Marco Aimo, discografico e ideatore del progetto. Quando li incontriamo è ora di pranzo, il sole picchia e sui Navigli si respira quella calma surreale da località marittima in bassa stagione, tipica delle ore diurne in zone di movida serale. La vetrina di Radio Raheem per il momento è vuota.
Ma com’è nata Radio Raheem?Michele: Immaginate i Blues Brothers. Da due o tre anni, forse anche di più, Marco ha in testa di voler fare una webradio, e periodicamente si metteva a chiamare tutti i suoi amici — anche me che non faccio parte della scena musicale. Alla fine ci ha riuniti lui, e siamo un gruppo assolutamente diverso e bizzarro. Ha messo insieme il gruppo, la radio nasce per merito suo.
Quindi insomma è Marco che ha visto la luce.Marco: Più che altro ho visto cosa succedeva in altri paesi, e mi dicevo “cazzo, ma perché non qua?” Per esempio Red Light, The Lot Radio, o prima ancora la famosa East Village Radio, che sono riuscito a vedere proprio prima che chiudesse. Per me era il top — si parla di dodici, quindici anni fa. Il modello era lo stesso: la radio in strada, con la vetrina… Il testimone l’ha preso The Lot a New York. Poi NTS, che è stata fondata da Femi Adeyemi di Boiler Room. Un altro esempio simile di adesso è Le Mellotron, una radio francese, a Parigi.
A proposito di Blues Brothers: chi fa parte della banda?Marco: Paco Salvini, un mio amico da molti anni e il proprietario del locale (il RAL8022, ndr), a cui ho rotto le palle per un sacco di tempo per chiedergli se mi dava mezza vetrina gratis.
Michele: Paco è anche un grande smanettone tecnico. Grazie a lui abbiamo fatto questa console che si alza, praticamente è una barca a vela, così il locale può avere anche questa porta che si apre.
Marco: Dopo Paco ho coinvolto Diego Montinaro, uno dei direttori artistici di Santeria, produttore, dj. Ha già avuto modo di fare il lavoro più difficile, quello di scrematura: dire sì, dire no, tenere la barra dritta con una linea editoriale. Diego poi ha una certa credibilità, che è fondamentale perché qualcuno voglia venire qui a mettere i dischi o a fare altro. Poi c’è Ambrogio Ferrario, che fa parte di una mia precedente vita — con lui abbiamo fatto molti anni fa le prime edizioni di Audiovisiva, poi ognuno ha preso la sua strada. Abbiamo fatto il Sottomarino giallo, che era questo mitico locale in zona Centrale —
Michele: C’era anche Diego che faceva il sabato.
Marco: Esatto. Quindi ci siamo un po’ conosciuti tutti. Ambrogio è stato prima a MTV, poi a Qoob/Flux, poi si è trasferito a lavorare per Nike e adesso è a Netflix — quindi sta ad Amsterdam. Poi chi è che manca? Non manca più nessuno?
Michele: Siamo solo noi?
Quando vi siete trovati tutti intorno a un tavolo, cosa vi siete detti?Marco: Partiamo.
Michele: Sì, ma ci vuole una premessa: io e Marco ci conosciamo da quando siamo bambini. Io e Ambrogio dal liceo. Diego e Paco li ho conosciuti in quest’occasione. Nello spirito della radio c’è questo ritrovarsi di persone che comunque si conoscono già — un concetto molto banale: un gruppo di amici che vogliono fare cose fighe. Una cosa un po’ da liceali.
Milano è finalmente pronta per ospitare progetti del genere?Marco: Secondo me sì. L’ho capito quando è iniziata Santeria, nel 2010. Mi ha dato coraggio. Vedere che una roba così, verso cui inizialmente partivo con qualche incognita, riusciva a crescere, mi ha convinto che… Perché no? Poi la vera mossa è stata quando abbiamo vinto il bando per Santeria Social Club. Sarà stata la giunta Pisapia, sarà stato l’EXPO: sentivo un’aria positiva.
Poi c’è anche il fatto che dopo un po’ mi rompo i coglioni e ho bisogno di fare una roba nuova. Dopo undici anni che mandavo mail agli uffici stampa mi sono un po’ rotto. Mi mancava il clubbing, solo che per il clubbing ero un po’ troppo vecchio, non ce la facevo più. La radio mi sembrava un ottimo compromesso, più abbordabile per un vecchio come me.
Michele: Un clubbing per vecchi, sostanzialmente.
Marco: Con il clubbing tra l’altro ho un rapporto di odio e amore. A me è sempre piaciuto quello un po’ sporco, dove magari non c’è per forza il dj con il cappellino della Supreme, per dire. Un mondo nato e morto prima dei social network — una volta io facevo soltanto i flyer, era una figata, nessuno sapeva niente, non c’era il fotografo che veniva a fare la sua carrellata di foto, e poi tutti a guardarsi. Il mondo è cambiato, ho capito, però se è solo una questione di gente che si fa le foto, una questione estetica — questa roba mi spaventa molto. Poi beh, dobbiamo vivere adesso, e quindi per forza la radio è costruita su un modello che deve confrontarsi con i social e tutto il resto.
Ci sembra però che Radio Raheem stia tentando, anche attraverso i social, non tanto di costruire un’immagine, ma di abbattere il filtro stesso dell’immagine. Presentarsi per quello che è.Marco: Sì, esatto, e presentare anche un’immagine un po’ sporca. Io sono nato in un mondo in cui l’estetica della musica era molto forte. Mi piaceva una certa riconoscibilità dell’estetica rispetto al messaggio musicale. Ora è stato tutto rimescolato, ma mi piacerebbe creare idealmente con questa radio un’estetica, un marchio. È bello che ci sia coerenza tra un tipo di musica, un tipo di messaggio e un tipo di estetica — che non sia solo un marchio di scarpe, però. Quello dei brand che si mangiano il contenuto è un problema che mi fa pensare molto. Non so se ci sono soluzioni, se la musica non ti dà pane.
Tocchiamo un tasto dolente: c’è ancora spazio per una web-radio nell’epoca di Spotify e dei suoi algoritmi personalizzati?Marco: In teoria no, non c’è più bisogno di questa intermediazione. Però se hai accesso all’oceano è facile sentirsi un po’ persi. Io per primo mi perdo nei miei viaggi su Spotify, ma ad un certo punto ho bisogno di qualcuno che metta il punto. Purtroppo però questi percorsi sono quasi sempre segnati — se Fader fa una cosa, poi la fa Pitchfork, e poi tutti a cascata. Si crea una linea ben chiara.
Bisogna cercare di essere sul pezzo, quindi, ma è importante anche essere una comunità, stare attenti alle cose belle italiane che puoi tirare su tu, se no sei uguale agli altri. Già a partire dal nome e dal logo, disegnato così, che si richiama al Kufi, l’idea è comunque di essere una radio del Sud Europa. Siamo qui, dobbiamo guardare più in questa direzione che verso Londra e Berlino. Non ha senso fare finta di essere berlinesi, perché tanto non puoi esserlo, e poi che differenza fa? A quel punto mi vado a sentire direttamente NTS. È chiaro che facciamo una cosa in quella direzione, ma il nostro compito dev’essere scoprire anche delle cose italiane.
Dobbiamo guardare più in questa direzione che verso Londra e Berlino. Non ha senso fare finta di essere berlinesi.Michele: Mi piace che ci sia questa ibridazione, questi incroci portano ricchezza alla radio. Partire da qui, e poi guardare all’Europa e aprirci. Ci siamo sempre detti, dobbiamo avere una “cosmic perspective.” Ci piace quest’idea. Non a caso abbiamo scelto questo visual: il nostro occhio è l’occhio di chi viene in radio, mette la musica, fa il suo programma. Ci interessa diventare un melting pot in cui la gente si raduna e facciamo cose interessanti, magari non necessariamente cool, ma che abbiano senso di essere.
Vi definite una radio “indipendente”?Marco: Più che altro ci siamo chiesti: ma indipendente in che senso? È un’espressione che viene dal mondo anglosassone — independent radio indica ciò che non è public broadcasting, se lo siamo, è solo per i contenuti.
È una radio do it yourself, facciamo la radio che vogliamo noi, con la musica che piace a noi, senza pressioni.
La prospettiva?Marco: (ride) Rivenderla a RTL, gli manca l’m2o — quella rock e quella italiana sono andate, gli manca una m2o un po’ più elegante. Ma non ci hanno ancora risposto.
A parte gli scherzi, l’ideale sarebbe riuscire a mantenersi economicamente, anche con una gestione molto monacale. La radio è nata come un gioco serio, con quella modalità di chi vuole divertirsi, ma anche con la consapevolezza che siamo tutti dei quarantenni che devono vivere e possono investire in una cosa, ma con delle risorse limitate.
Michele: Di sicuro cercheremo degli sponsor, ma non vogliamo che questa necessità vada a intaccare quelli che sono i contenuti e la natura e la radio stessa
Marco: Insomma, l’unica è essere benestanti, per questa cosa.
Michele: Noi comunque arriviamo al seguito di una serie di radio che hanno anche sdoganato una sorta di format visivo. Il futuro è aperto a molte più sperimentazioni. A me ha convinto subito il fatto di avere questa vetrina, la visibilità, l’esserci. Da appassionato di cinema e serie tv, la radio mi è sempre piaciuta quando si vede. La radio è bella da vedere, è calda, è vita. Perché non la vedi mai, di solito. È bello metterci la faccia anche nel quartiere — siamo qui, puoi incontrare le persone che mettono i dischi. Diventa come il cinema di quartiere: tu sai che lì fanno una selezione di un certo tipo, di qualità: diventa un punto di riferimento.
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