L’estate di Matteo Renzi: far fuori Gentiloni
Potrebbe essere il tempo di tirare qualche bilancio sul governo Gentiloni, nato da molte costole di quello Renzi appena cinque mesi fa, e che vede approssimarsi la sua fine.
Potrebbe essere il tempo di tirare qualche bilancio sul governo Gentiloni, nato da molte costole di quello Renzi appena cinque mesi fa, e che vede approssimarsi la sua fine.
È notevole osservare come il Governo Gentiloni sià già passato a miglior vita. A nemmeno sei mesi dalla sua costituzione, l’esecutivo sembra essere già arrivato al capolinea del suo breve — e non molto glorioso — percorso istituzionale. Non aveva mai dato particolari segni di vitalità, ma il suo definitivo trapasso è avvenuto piuttosto in fretta, quasi senza che nessuno se ne accorgesse.
Tutto è cominciato con le primarie del Partito Democratico. Un partito sano, dopo la batosta referendaria di dicembre, avrebbe con ogni probabilità cercato un nuovo segretario e rimesso in panchina — meglio ancora: nel dimenticatoio — quello vecchio. Invece il PD, alleggerito dal divorzio della sua componente di sinistra, ha riconfermato con larga maggioranza Matteo Renzi. Che, come sempre, sembra avere interpretato una vittoria elettorale in una competizione secondaria come una chiamata divina alla testa del paese.
Era già successo alle primarie del 2013 e alle elezioni europee del 2014: qualcuno si ricorda di #enricostaisereno? Anche quest’anno, dopo le primarie, Renzi aveva ribadito il suo sostegno al governo — ma si sono subito iniziati a sentire i primi scricchiolii. Non era passata nemmeno una settimana dal voto che Boschi — lunga mano di Renzi nel Governo — aveva già dato un chiaro segnale ai suoi colleghi dell’esecutivo, inviando una circolare intimidatoria in cui chiedeva che tutti i provvedimenti dei vari dicasteri passassero sulla sua scrivania prima di arrivare in Consiglio dei Ministri.
Uno dei principali scricchiolii è la solerzia con la quale tutti i partiti — dal più piccolo ai più voluminosi — stanno dicendo la loro, contrattando e cercando di trascinare al proprio mulino le legge elettorale. L’aria che tira, e che tutti annusano, è che Renzi voglia andare alle urne a settembre. Probabilmente è un’impressione corretta. Al momento, la legge elettorale preferita dal segretario PD sembra essere quella che viene definita Rosatellum, con il solito orrido vizio di declinare il nome all’accusativo latino. Questa nuova legge elettorale, che molti paragonano in modo non del tutto corretto a quella tedesca, in realtà è una versione un po’ rimescolata del vecchio Mattarellum: un mix tra proporzionale e maggioritario, con qualche differenza sulle modalità di elezione del senato. Piace a PD, Forza Italia, un po’ a Grillo e Salvini, che vogliono andare a votare subito. Abbiamo raccolto un commento di Roberto Rampi, deputato PD in commissione cultura.
Sulla legge elettorale penso invece che la questione sia molto aperta ma una soluzione con i collegi uninominali sia la migliore per la possibilità reale dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Secondo me ci sono i margini ma anche qui serve impegno e non irrigidire le posizioni.
Insomma inizia a far caldo ma evitiamo i colpi di sole.
Uno dei punti salienti del dibattito sulla legge elettorale riguarda la soglia di sbarramento. Il Rosatellum la fisserebbe al 5%, che è una soglia piuttosto alta per la tradizione politica italiana. Con il Mattarellum, la legge elettorale vigente, il limite per entrare in Parlamento è fissato al 3%, e questo consente anche a forze non molto grandi di avere un peso sulla politica del paese. Renzi, fin dai suoi giorni da rottamatore, si è sempre detto contrario all’ingresso dei piccoli in parlamento, sostenendo in sostanza che intralcino quelli grandi — e quindi siano nocivi per il paese. Una volta segretario, la sua visione si è intrecciata con quella veltroniana del partito-a-vocazione-maggioritaria, confluendo in questa proposta di sbarramento più alta del previsto.
Naturalmente i piccoli partiti non sono rimasti inerti a farsi rottamare: soprattutto quelli che sono gli attuali alleati di governo, NCD e MDP. Nel PD, c’è chi accusa i vecchi compagni di partito che oggi militano in MDP di voler alzare la tensione e, magari, far cadere il governo, solo per andare alle urne prima che passi la nuova legge elettorale, dato che la soglia al 5% potrebbe escluderli dal Parlamento. Alcune accuse lanciate verso gli ex compagni, a dire il vero, sembrano un pochino fuori luogo:
I voucher di cui si parla sono quelli su cui, in teoria, si sarebbe dovuto votare proprio oggi con un referendum per decidere se abrogarli o meno. Il governo, nel timore di una batosta al referendum, li aveva eliminati a fine marzo ma ieri, in commissione bilancio, ha approvato un emendamento che sostanzialmente li reintroduce. Una manovra politica di rara eleganza e correttezza, che ha mandato su tutte le furie la CGIL — che per il referendum aveva raccolto tre milioni di firme e di sigle politiche come, appunto, MDP, che hanno molto premuto per l’abrogazione dei voucher.
Gentiloni, sulla disputa voucher, prima si è irritato temendo una tresca contro di lui, poi è rimasto un po’ in disparte a guardare sconsolato quello che gli si andava cucinando attorno. C’è stato anche chi ha posto qualche domanda velenosa: e se il PD avesse proposto la reintroduzione dei voucher apposta per causare una frattura insanabile tra sé e MDP, dando così il benservito a Gentiloni? La teoria, per quanto affascinante, si è però rivelata una speculazione quando il partito di Renzi si è risolto a votare il provvedimento insieme a Forza Italia anziché ai suoi alleati di governo.
Potrebbe dunque essere il tempo di tirare qualche bilancio su questo governo, nato da molte costole di quello Renzi appena cinque mesi fa, e che vede approssimarsi la sua fine. Cosa si lascia alle spalle?
La caretteristica davvero saliente di questo governo è stata, purtroppo, la stretta sulla politica migratoria: il cosiddetto e famigerato decreto Minniti-Orlando, del quale — e delle cui conseguenze — abbiamo parlato molto spesso.
Gentiloni verrà ricordato per essere stato il premier di centrosinistra che, nonostante il breve governo, è riuscito a far spostare a destra la politica migratoria di un paese come il nostro, fino a qualche mese fa — almeno in teoria — il meno vessatorio nei confronti dei rifugiati.
Quanto Renzi c’è stato dietro Gentiloni? Fin da quando il governo si è insediato era chiaro che il premier uscente avrebbe avuto una notevole influenza, con vari mezzi, su quello entrante. Per prima cosa, banalmente, i due governi sono composti da facce molto simili — un gran numero di ministri del precedente gabinetto è stato traslato in quello nuovo senza colpo ferire. Senza contare, ovviamente, la posizione strategica di Boschi a sottosegretaria alla presidenza del consiglio, l’equivalente di mettere la mano di Renzi sulla spalla di Gentiloni 24 ore su 24.
In modo più sottile, invece, si può provare a indovinare quanto Renzi abbia voluto usare la sua influenza per spingere questo governo a fare cose scomode, su cui lui magari avrebbe preferito evitare di mettere la faccia: come il decreto Minniti-Orlando, appunto. Di certo, Gentiloni è sempre stato una persona schierata un po’più a sinistra di Renzi — perché prendere provvedimenti come questi, appunto, se non per una forte e inevitabile influenza del Partito?
Gli ultimi mesi e le ultime settimane del governo Gentiloni rischiano di essere ancora più ostaggio del segretario padre e padrone Renzi, che potrebbe usarlo per ricalibrare gli equilibri politici in vista del voto e capire da che parte far girare il suo personale, massiccio partito democratico prima e dopo il voto. Uno strumento nelle sue mani, un paravento che, a parole, si vuole proteggere, mentre si pensa alle cose davvero importanti: allearsi con Bersani o con Berlusconi?
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