Il terrorismo si combatte con l’integrazione

Non è più rimandabile una seria politica di integrazione per i figli degli immigrati, così come sono urgenti interventi mirati per recuperare le periferie delle città.

Il terrorismo si combatte con l’integrazione

La storia di Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni dimostra che il pattugliamento di polizia nelle strade non basta a contrastare efficacemente terrorismo e radicalizzazione.

Milano, Stazione centrale, un giovedì sera poco dopo le 20. Un uomo attacca con un coltello due soldati e un agente della polizia ferroviaria, che lo avevano fermato per un controllo. L’uomo viene poi arrestato, e i tre agenti – feriti in modo non grave – vengono portati in ospedale per ricevere le cure necessarie. Nei giorni seguenti si scoprirà che quell’uomo, Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni, è un giovane italo-tunisino (20 anni) già noto alle forze dell’ordine per piccoli reati di droga. Si saprà soprattutto che il giovane aveva iniziato un percorso di radicalizzazione islamica. Per questo, all’accusa per tentato omicidio, il pm aggiunge l’accusa di terrorismo internazionale.

Una storia, questa, che se letta in tutte le sue sfumature, va molto al di là del banale fatto di cronaca. E può essere usata per sfatare alcuni miti diffusi in Italia — ma anche in Europa — su sicurezza, migranti e terrorismo. Tre questioni fortemente legate fra loro, ma in modo diverso da quello che spesso traspare dalla narrazione di molti media e dalla retorica di alcuni esponenti politici.

Controllo del territorio

Dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles, chi abita in grandi città è ormai abituato a passeggiare di fianco a militari con mitra in bella vista e a vedere camioncine pattugliare quotidianamente le zone più trafficate. È una vittoria dei terroristi, in un certo senso: ci hanno costretti a vivere sempre all’erta, col timore che un attentato possa verificarsi da un momento all’altro. La presenza delle forze armate per le strade delle principali città, italiane ed europee, viene spesso considerata soltanto un modo per tranquillizzare i cittadini, per farli sentire più sicuri. Da un lato è vero, poiché un attentato terroristico, per la sua rapidità e imprevedibilità, è quasi impossibile da sventare una volta messo in atto.

D’altra parte, così facendo si rischia di sottovalutare il fondamentale lavoro di prevenzione svolto quotidianamente dalle forze dell’ordine con la loro presenza fisica. Il caso di Milano ne è un esempio concreto: senza quella pattuglia di controllo alla Stazione Centrale, Hosni non sarebbe stato fermato e probabilmente ora ci sarebbe un ragazzo potenzialmente molto pericoloso a piede libero. Non è la prima volta che un controllo apparentemente di routine porta a scoperte inattese: lo scorso dicembre una volante aveva fermato a Sesto San Giovanni (poco fuori Milano) un giovane tunisino, che aveva sparato agli agenti ed era morto nello scontro a fuoco. Si era poi scoperto che si trattava di Anis Amri, l’attentatore di Berlino che pochi giorni prima aveva ucciso 12 persone a bordo di un camion.

Se due indizi fanno una prova, questi casi ricordano l’importanza del controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine. Un elemento chiave per combattere il terrorismo islamico che ha colpito in Europa, laddove gli attentatori — o le potenziali minacce, come nel caso di Hosni — nella maggior parte dei casi (su tutti quello di Bruxelles) avevano un legame diretto col luogo dove è stato eseguito l’attentato.

Quali migranti?

Poche ore dopo l’aggressione alla Stazione Centrale, si sono scatenate le polemiche. Non c’è da meravigliarsi, dato che ci sono politici pronti a fare campagna elettorale e a sfruttare ogni occasione per attaccare i “migranti” in senso lato. È il caso del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni, che appena un paio d’ore dopo i fatti proponeva su Twitter di annullare la marcia pro-accoglienza organizzata a Milano sabato scorso. Ma in casi come questo, è importante mostrare come una simile polemica, oltre che razzista, sia completamente infondata.

+++ DOPO L'AGGRESSIONE IN CENTRALE ANNULLARE LA MARCIA PRO-IMMIGRATI PREVISTA PER SABATO +++

+++ SONO VICINO… https://t.co/fv6qpnZuUy

— Roberto Maroni (@RobertoMaroni_) May 18, 2017

Il giovane fermato non appartiene sicuramente al “migrante” dell’immaginario leghista: i barconi, le ong, quelli che vengono a rubarci il lavoro, ecc. Ismail Tommaso Hosni, 21 anni il prossimo 17 agosto, è infatti nato a Milano da padre tunisino e madre italiana. Non ha attraversato il Mediterraneo per venire in Italia, ci è nato e ne ha la nazionalità (per via materna). Niente a che vedere quindi con gli sbarchi: di ragazzi come Hosni, per usare il ragionamento della Lega Nord, ne continuerebbero a nascere a centinaia nella Penisola, anche se oggi si fermassero magicamente gli arrivi via mare.

Per questo non ha alcun senso accusare i “migranti,” né continuare a ripetere come un mantra la malaugurata concezione dell’estrema destra per cui un minor numero d’immigrati porterebbe maggior sicurezza e meno criminalità. La storia di Ismail Tommaso racconta semmai le difficoltà d’integrazione dei giovani italiani di seconda generazione: uno step al di là del dilemma tra accoglienza e respingimento alle frontiere. Si tratta di una questione che finora la politica non ha avuto il coraggio di affrontare con i mezzi necessari, e che invece dovrebbe essere tra le priorità di qualunque governo italiano da qui ai prossimi anni. Ed è un messaggio per l’estrema destra: chiudere i cancelli sarebbe come negare un problema che, questo no, non si può respingere.

Giovani fragili e periferie allo sbando

Il caso di Hosni è emblematico anche per un altro motivo: si tratta di un giovane italiano e musulmano. Con grossi problemi familiari alle spalle, viveva in uno stato di degrado e solitudine tra la Stazione centrale e la periferia milanese (Quarto Oggiaro), dormendo in un furgone rubato. Da questi presupposti, è facile capire come Hosni sia potuto finire nel mirino di qualche predicatore estremista, che lo avrà convinto senza troppe difficoltà ad unirsi alla causa dell’Islam violento.

Una foto segnaletica di Hosni, via Twitter
Una foto segnaletica di Hosni, via Twitter

Fino a qualche mese prima il ventenne di origini tunisine era un “ragazzo normale”, poi la trasformazione: si fa crescere la barba, comincia a postare video dell’Isis su Facebook, e così via. La sua storia ricorda quella di alcuni dei terroristi del Bataclan (Parigi): adolescenti come altri che d’un tratto hanno fatto perdere le proprie tracce e hanno abbracciato la causa dell’Isis. Giovani cresciuti in contesti difficili, in periferie con forte immigrazione e con zero prospettive di realizzazione. È in questi contesti che le vite finiscono facilmente nella centrifuga della radicalizzazione, una sorta di nichilismo in salsa religiosa.

È la prova della mancanza di un efficace sistema per sostenere le persone in difficoltà, coloro che restano tagliati fuori dalla società.

Sia chiaro: l’aggressione alla Stazione Centrale non va considerata un attentato terroristico. Tuttavia si può affermare con una certa sicurezza che Hosni si era ormai “radicalizzato,” come si dice in questi casi. Le foto segnaletiche della polizia mostrano un giovane che potrebbe essere facilmente scambiato per uno degli autori dei più sanguinari attentati europei. Questo non fa automaticamente di Hosni un terrorista, però è la prova del micidiale meccanismo in grado di trasformare un giovane senza speranze in uno spietato omicida. Ed è per questo che il caso dovrebbe essere studiato non soltanto dai poliziotti, ma anche dagli addetti alle politiche sociali e all’istruzione. Perché se un ventenne sceglie di abbracciare l’Islam estremo vuol dire che si è sentito abbandonato. È la prova della mancanza di un efficace sistema per sostenere le persone in difficoltà, coloro che — e sono sempre più numerosi tra i giovani italiani — restano tagliati fuori dalla società.

Insomma i fatti di Milano dovrebbero allarmare le istituzioni italiane e spingerle a studiare al più presto soluzioni per garantire la sicurezza anche nel lungo termine. Non è più rimandabile una seria politica di integrazione per i figli degli immigrati, così come sono urgenti interventi mirati per recuperare le periferie delle città, nelle quali il degrado e il senso di abbandono soffocano le aspirazioni di molti giovani, facilitandone la marginalità e l’adesione ad organizzazioni criminali di vario genere. Con l’ulteriore rischio, nel caso dei giovani musulmani, della radicalizzazione. Anche su questo terreno, e non solo su quello del pattugliamento delle strade, servono forze fresche ed impegno per battere il terrorismo islamico.


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