Nonostante gli ovvi limiti di risorse per una produzione indipendente, Figli come noi, l’ultima pellicola di Rosso Fiorentino, è Cinema con la C maiuscola.
A cura di Dikotomiko Cineblog.
Succedono cose strane, in Italia.
Stupri, sadismo e tortura. Ovvero torture-porn. Senza neanche la necessità di mostrare i dettagli. Come un film porno privo dei primi piani delle penetrazioni, delle eiaculazioni, dei peni eretti o delle vagine spalancate. Più torture che porn, quindi. Ma solo negli occhi, ché ormai bastano le parole, i luoghi, i nomi e i cognomi, a turbare, a destabilizzare, a mettere i brividi. Ad indurre a cercare, persino, di distogliere lo sguardo da qualcosa che in realtà non stiamo affatto guardando. Basta pronunciare le parole. Posti come Bolzaneto o la scuola Diaz. Persone come Sole e Baleno. Federico Aldrovandi. Katiuscia Favero. Giuseppe Uva. Stefano Cucchi.
Figli come noi ha l’effetto di un torture-porn prima ancora di incominciarne la visione, e probabilmente Rosso Fiorentino ne era consapevole durante la lavorazione (ha già bazzicato l’horror con i suoi cortometraggi): l’elemento rivelatore è la musica, la colonna sonora del film — costituita interamente da brani royalty-free, disponibili su freestockmusic.com — è efficacissima e perfetta per un torture-porn. Ad aumentare il livello di horror è la presenza — dapprima in voice-over, poi inquadrato in primo piano — di un rappresentante delle istituzioni inquietante e luciferino, una sorta di maestro di cerimonie infernali in giacca e cravatta. Il simbolo del potere, altezzoso e tronfio come un boss di quartiere, ma elegante e stiloso come un neo-premier francese. Un diavolo che sputa menzogne sorridendo in-stile-direttore-di-banca, che vomita cazzate come si è sempre fatto in Italia, ma dandosi un tono da dirigente europeo che in definitiva è tragicomico. Ma comunque inquietante.
Il simbolo del potere, altezzoso e tronfio come un boss di quartiere, ma elegante e stiloso come un neo-premier francese.
Quando poi la violenza non rimane off-screen, quando l’orrore si materializza davanti ai nostri occhi, il disagio aumenta a dismisura, perché guardare è sempre più terribile di ogni ricostruzione mentale o verbale. Non dimenticherò mai la ragazza che incrociai dopo la visione di Diaz, che uscì dalla sala tremando e con gli occhi rossi.
Lo sapete, noi qui mettiamo il Cinema davanti a tutto, le storie raccontate non ci interessano se non occupano lo schermo con senso e dignità cinematografiche. Figli come noi, nonostante gli ovvi limiti di risorse per una produzione indipendente, è Cinema. Anche nella rappresentazione in location poco credibili ma molto — appunto — cinematografiche, come le segrete anguste nelle quali si consuma il lento omicidio di Stefano Cucchi. In Italia succedono cose strane, dice impaurita Katiuscia Favero nell’ultima telefonata a sua madre. E succedono da più di sessant’anni. Noi siamo paranoici e complottisti, a noi la teoria delle mele marce è sempre sembrata una sorta di tendina trasparente e cortissima, logora e inutile, incapace di coprire una lista di abusi e violenze, omicidi e torture, lunghissima come la storia della Repubblica Italiana.
La realtà, naturalmente distorta dalla nostra ottica paranoica e complottista, è sempre la stessa, banalmente e ottusamente ideologica: la maggioranza dei poliziotti e carabinieri italiani è f-a-s-c-i-s-t-a. E non solo perché ha l’immagine del Duce sullo smartphone, non solo perché canta in coro Faccetta Nera, o intona in coro “Uno a Zero per noi!” nelle caserme di Genova, alla notizia della morte di Carlo Giuliani. Ci deve essere qualcosa nell’addestramento, nella vita in caserma, che insegna alla gendarmeria l’odio di regime, in particolare contro le “zecche comuniste,” una specie di umani da annientare comprendente chiunque si vesta in maniera non conforme, o frequenti centri sociali, o partecipi a cortei, e la lista è lunga. E la storia è vecchia. Sempre uguale.
Figli come noi è quindi una visione ovviamente necessaria, ed è — ribadiamolo — Cinema. È anche, fieramente, una visione di parte, partigiana, personale. Rosso Fiorentino ha scelto di non ascoltare nessuno in fase di scrittura e lavorazione. Non i parenti delle vittime, non le forze dell’ordine. È una visione di parte. E la parte è quella giusta. Lo è sempre stata.