“Il decreto Minniti dà al Gruppo Speciale Sicurezza Urbana la possibilità di dare la caccia in modo indisturbato — basta che siano neri.”
La consapevolezza riguardo al fenomeno è diffusa: non è raro vedere polizia, funzionari pubblici e controllori operare in maniera diretta, specifica e mirata su persone di etnia diversa ― mentre chi rientra in certi canoni rimane inosservato. Si tratta di una pratica macchiata di pregiudizio e discriminazione che ha un nome preciso: razzismo istituzionale.
Nonostante la cronaca comunichi sistematicamente che il problema è reale e tangibile vi è un continuo negare, giustificare e le solite risposte: c’è bisogno di controlli, ordine, di verificare la legalità e garantire la sicurezza collettiva.
Parlare di legalità e sicurezza sembra una valida risposta alle denunce di razzismo istituzionale, del resto sono termini ben noti al centrodestra ed inequivocabilmente afferenti alla retorica securitaria, ma non annullano né giustificano il razzismo insito nelle operazioni in questione.
Il razzismo istituzionale si esprime in un complesso di leggi, politiche, operazioni e prassi amministrative che discriminano in maniera implicita o esplicita una parte della popolazione su base razziale.
In opposizione al razzismo individuale e popolare quello istituzionale si dimostra più subdolo, meno tracciabile, ma altrettanto tossico.
Il caso più diffuso è dato dai controlli: il fatto che vengano eseguiti avendo il target “immigrati” segnala che la percezione della diversità etnica è ridotta alla semplice etichetta di migrante ― quasi fosse una nuova razza ― utilizzando la pratica del racial profiling.
Nell’immaginario collettivo a proposito tornano le immagini di numerosi pestaggi e decessi in custodia per i quali sono stati indagati degli agenti di polizia, ma non solo, anche situazioni che sfiorano il limite della violenza in cui i migranti riportano di essere trattati in modo ingiustificatamente brusco e violento durante i controlli.
Il pregiudizio nell’effettuare un blitz come quello avvenuto in stazione Centrale, spudoratamente indirizzato ad un generico “immigrati”, si traduce in un retaggio di massa che agisce indistintamente su persone di colore e tratta “gli stranieri” come una macrocategoria omogenea ― quasi fosse un criterio affidabile o legittimo.
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Il controllo avvenuto a Milano è stato su base razziale ― nemmeno etnica ― in quanto ha amalgamato un aggregato di persone col solo discrimine di caratteristiche fisiche apparenti che indichino provenienza diversa. Essendo inconsistente e scientificamente ridicolo lo stesso concetto di razza ogni operazione che si basa su questo costrutto pregiudizievole e denso di ignoranza rispetto alle diversità etniche risulta illegittima e moralmente riprovevole.
Tra le diverse forme in cui è riscontrabile il razzismo istituzionale le dichiarazioni e le iniziative offensive da parte di autorità o personaggi pubblici sono tra le più diffuse e scarsamente perseguite.
In questa categoria gli studi sul razzismo in Italia annoverano puntualmente il linguaggio lesivo utilizzato dalla Lega Nord nonché le azioni perpetrate dai suoi membri.
L’ultimo degli innumerevoli esempi durante il blitz di Milano: Salvini stazionava tronfio filmando e fotografando la retata per sfruttare politicamente il momento, e successivamente non ha mancato di utilizzare un linguaggio terrificante: “fare pulizia.”
Agenzie come l’Unar che monitorano il razzismo in Italia hanno più volte segnalato come il ruolo di funzionari pubblici quali docenti, medici, avvocati, giudici, burocrati, forze dell’ordine, ma anche autisti e controllori che agiscono discriminando sia la faccia quotidiana, ininterrotta e strisciante del razzismo istituzionale, che anche con piccole azioni crea il substrato culturale della discriminazione più sofferta.
Una delle forme di razzismo istituzionale più palese è data invece da regolamenti, ordinanze o provvedimenti xenofobi. A livello locale, anche qualora i provvedimenti venissero bocciati dai tribunali, rischiano di aver comunque ottenuto il risultato sperato: dare un senso di intimidazione e intolleranza. Le amministrazioni locali decise a ledere i migranti si ingegnano introducendo formule meno soggette al vaglio dei tribunali: eludono la legge non menzionando direttamente la popolazione straniera, ma attuando di fatto provvedimenti che la toccano: ad esempio, invece di escluderla da determinati servizi si stipula che i beneficiari siano persone con una lunga residenza sul territorio.
Il Testo Unico sull’Immigrazione prevede che il permesso di soggiorno venga rilasciato in un tempo massimo di 20 giorni, in realtà però le amministrazioni ci mettono mesi per produrre il documento e spesso il permesso viene consegnato già scaduto. La burocrazia farraginosa rappresenta così un’altra forma di razzismo istituzionale contro i migranti, che devono farsi carico ― oltre che della già di per sé complessa procedura burocratica ― anche dall’imperizia spesso intenzionale dei funzionari nei loro confronti.
A questo proposito la problematica più spesso riportata riguarda come si sfrutti il loro svantaggio nella conoscenza della lingua o del sistema normativo.
A riprova della discrezionalità delle istituzioni locali ad agire in modo discriminatorio vi sono anche le frequenti segnalazioni di sgomberi forzati dei rom che continuano su scala nazionale senza riguardo a garanzie procedurali come la notificazione per tempo e le soluzioni di ricollocamento.
Sul piano nazionale invece la legge Bossi-Fini è il più palese esempio di razzismo istituzionale, in quanto prevede restrizioni assurde e requisiti inottemperabili: ad esempio per poter soggiornare regolarmente in Italia si deve essere già in possesso di un contratto di lavoro, con un datore che ovviamente non si è nemmeno mai incontrato, costringendo perciò i migranti a rientrare nella categoria degli “irregolari” contro cui lo stesso governo promotore della legge puntava tanto il dito.
In molti imputano i fatti accaduti in stazione Centrale a Milano al decreto Minniti-Orlando: il blitz sarebbe un effetto della necessità di “sicurezza urbana” che vi traspare, a cui le questure sono pronte a rimediare. Analogamente alcune politiche di controllo delle frontiere europee rappresentano lo stesso tipo di base su cui si ergono i controlli discriminanti: è un razzismo definito di sistema, ostico da riconoscere e da perseguire, ma con l’impatto più ampio.
Anche la gestione degli spazi segregante rappresenta una forma di razzismo istituzionale comunemente diffusa: si tratta di politiche abitative e interventi urbanistici che mirano a confinare le aree dove si concentra il disagio e la marginalità sociale in campi o zone residenziali emarginate. È stato provato come, contro ogni proposito delle amministrazioni, in realtà siano proprio queste pratiche a generare depressione e reazioni violente in chi si sente relegato e stigmatizzato.
Nell’ultimo report rilasciato dalla Commissione Europea contro Razzismo e Intolleranza (ECRI) vengono individuate molte aree problematiche segnalanti come l’Italia sia lungi dall’estirpare il razzismo istituzionale. Nello specifico viene segnalato come le leggi italiane in molti casi non incriminino le discriminazioni ― ad esempio il linguaggio razzista ― e che, anche quando previste, le penalità si rivelano spesso inefficienti, poco proporzionate e non dissuasive. Il monitoraggio segnala inoltre come l’Unar, l’Unione Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, non sia conforme al principio di indipendenza degli organi nazionali e non abbia un potere sufficiente di monitoraggio e contrasto, in particolare sulle istituzioni e i personaggi pubblici.
#RomaNonSiVende: corteo aperto da amici e parenti Nian Maguette. Di Maggio dimettiti! Sciogliere nucleo speciale vigili! #RomaSiamoNoi pic.twitter.com/5cf5hwGOGq
— DinamoPress (@DinamoPress) May 6, 2017
Mercoledì a Roma è deceduto un uomo durante un’operazione della polizia municipale, era di origini senegalesi e si guadagnava da vivere facendo il venditore ambulante. C’è tutto da chiarire su come sia morto, le testimonianze sono contrastanti: chi parla di investimento, inseguimento, chi di percosse e chi di infarto, ma alcuni elementi sono chiari: Nian Maguette è morto durante una retata, nonostante la polizia fosse a conoscenza della morte il cadavere è stato lasciato a terra per ore, “quasi fosse una banalità,” “dicevano che non è niente” racconta un testimone, degli amici dell’uomo visibilmente traumatizzati e sofferenti ci si curava solo per dirgli di allontanarsi ai fini dell’ordine e alle loro reazioni sono seguite manganellate.
Venerdì in piazza a Roma in centinaia hanno manifestato chiedendo verità e giustizia per la morte di Nian. C’era anche il fratello, faticava a parlare: “Nian lascia moglie e figli molto piccoli, sono molto preoccupato, chi si occuperà di loro adesso? Voglio giustizia.” Tra i manifestanti tanta disillusione nei confronti della polizia e affermazioni forti: “il Gruppo Speciale Sicurezza Urbana è un gruppo istituito sotto il mandato di un’amministrazione che ha orientamento fascista,” “il decreto Minniti oggi gli dà la possibilità di dare la caccia in modo indisturbato, generale e generalizzato agli ambulanti ― basta che siano neri.”
Morte di Nian Maguette. Rastrellamenti #migranti a Milano e Roma. ONG-taxi. Cartoline di 24 ore nel BelPaese! @BaobabExp @amnestyitalia pic.twitter.com/a3yv6RKRCZ
— Zeroviolenza (@ZeroViolenza) May 4, 2017
Due episodi, quello di Roma e quello di Milano, un giorno dopo l’altro, testimoniano come il razzismo istituzionale in Italia sia una realtà che in nome di ordine, sicurezza e decoro, prerogative del governo dopo il decreto Minniti-Orlando, traumatizza e lede i migranti sul piano psicologico ― con ripercussioni anche fisiche e fatali.
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