As we get older and stop making sense, you won’t find her waiting long.
I titoli di testa del grafico cubano Pablo Ferro appaiono su un raggio di luce tagliato. Mentre la telecamera si muove lentamente all’indietro, un brusio di fischi e applausi si affaccia nell’inquadratura. L’ombra di una chitarra, la sagoma di un cantante che con le sue sneaker bianche si avvicina al microfono: “Hi, I got a tape I want to play”.
Siamo nel 1983, Jonathan Demme è un regista ancora poco conosciuto, in carriera ha solo una manciata di film, ma l’occhio è quello giusto e vede nei Talking Heads “un film in attesa di essere girato.” È lui a chiedere a David Byrne di produrre un film sul tour Speaking in Tongues, che si rivelerà poi l’ultimo nella storia del gruppo. Queste sono le semplici premesse della produzione di Stop Making Sense, il concert film girato da Demme nelle tre notti al Pantages Theater di Hollywood — il risultato però è tutto fuorché semplice.
Due anni prima era nata MTV, centrifuga musicale che cavalca l’onda della diffusione pop attraverso tutti i canali di comunicazione dell’epoca. I colori, l’eccesso, le caleidoscopiche performance di video musicali come quello di “Video Killed The Radio Star” stavano presentando alle nuove generazioni i linguaggi degli anni Ottanta — non era facile svincolarsi da questo monopolio stilistico e il rischio di esserne inghiottiti inconsapevolmente era alto. Eppure Stop Making Sense, con il suo estremo minimalismo estetico e la sua eleganza visiva, rimane ancora oggi uno dei punti più alti – e per molti mai superato – dell’incontro tra musica e immagini.
Il documentario di Demme è infatti uno di quei rari casi in cui l’unione tra artisti capaci di articolare (e a volte superare) le aspettative della propria epoca crea un’opera senza tempo — destinata ad essere utilizzata come metro di paragone per tutto quello che verrà dopo. È difficile immaginare l’avanguardia scenica di artisti contemporanei come Beyoncé o Kanye West senza l’influenza storica di Stop Making Sense e del lavoro dei Talking Heads.
Così come oggi Stop Making Sense gioca un ruolo fondamentale nell’influenzare i nuovi linguaggi musicali e cinematografici, si può dire che a rendere unico il lavoro di Demme e dei Talking Heads è stata la continua capacità di assimilare nel loro lavoro gli stimoli culturali venuti prima di loro — nel film aleggiano infatti riferimenti alla Nouvelle Vague e alle pellicole di Stanley Kubrick, all’immaginario graffitaro e alla cultura orientale.
In una recente intervista con il Time, i due artisti hanno commentato così la loro collaborazione al film.
Demme: “La maggior parte delle dinamiche nacquero dalla visione originale di David Byrne, ma fu un’esperienza estremamente collaborativa.”
Byrne: “Jonathan vide delle cose nello spettacolo di cui io non mi ero accorto o che non mi rendevo conto di quanto fossero importanti.”
Lo sguardo di Demme infatti si sofferma senza sosta e senza distrazioni sui movimenti e i volti dei musicisti, inseguendo le note imprevedibili del gruppo. Stop Making Sense è l’estremo atto cinematografico in cui tutto prende senso e in cui la macchina da presa diventa occhio per inseguire David Byrne sul palco.
Per anni, dopo il successo del film, Jonathan Demme ha tentato di riprodurre la chimica creatasi in quei tre giorni al Pantages Theater, ma né Neil Young né Justin Timberlake sono riusciti a infondere in lui la sicurezza che avevano scatenato i Talking Heads. Oggi, con la morte del regista all’età di 73 anni, Stop Making Sense diventa il testamento culturale del suo lavoro — un’opera immortale capace di comunicare, nella sua semplicità, la vera potenza del cinema.