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Cosa significa la vittoria al primo turno di Emmanuel Macron? Che gli elettori hanno scelto una ricetta che ha già fallito, e la minaccia lepenista nella migliore delle ipotesi è solo rinviata.

Il risultato del primo turno delle elezioni francesi di ieri era largamente previsto: nonostante l’incertezza fino alla fine, dovuta alla poca distanza nei sondaggi tra Fillon e Mélenchon, alla fine si è verificato il quadro più atteso, che nessuno si azzardava ad accreditare con eccessiva sicurezza soltanto per non evocare il demone del fallimento dei sondaggi. L’unica differenza significativa è nel vantaggio di Macron, che contro le attese è riuscito a guadagnare il primo posto.

La medaglia d’argento di Marine Le Pen rischia però di far passare in secondo piano il dato più rilevante, e preoccupante, di questo voto: il Front National guadagna comunque il risultato migliore della propria storia, crescendo dal 17.9% del 2012 al 21.5 di ieri. Nel 2002, in occasione del tanto evocato “fronte repubblicano” che portò l’82% degli elettori a convergere su Jacques Chirac, Jean-Marie Le Pen si era fermato, al secondo turno, sotto il 18%. I fascio-sovranisti francesi, insomma, non sono mai stati così forti. Sommati al 20% ottenuto dall’ultra-conservatore Fillon — che comunque ha dato subito indicazione di votare Macron al secondo turno — l’orientamento a destra dell’elettorato francese è lampante.

Certo, più dei 3-4 punti guadagnati da Marine Le Pen in cinque anni fanno impressione i 24-25 persi dal partito socialista — otto milioni di voti — per colpa della pessima gestione Hollande-Valls, su cui già molte analisi si sono spese. La débacle repubblicana non è stata altrettanto pesante — come sempre, gli elettori di sinistra sono più facili ad accoltellarsi a vicenda — ma è certamente questo il secondo dato più impressionante di questa tornata: l’assenza dal ballottaggio di entrambi i partiti tradizionali maggiori, per la prima volta nella storia cinquantennale della V repubblica francese.

Ma è davvero così sensazionale? Da un lato, si tratta di uno scenario a cui siamo ormai ampiamente abituati, che continua soltanto a trovare conferme: in quasi tutte le democrazie occidentali la crisi economica del 2007-2008 ha indebolito il fragile modello dell’alternanza bipolare fra centro-destra e centro-sinistra — che d’altronde è venuta sostanzialmente meno anche nella sua patria di irraggiamento, gli Stati Uniti.

Dall’altro, non bisogna dare troppa importanza alle forme. Macron è stato senza dubbio scaltro a sfilarsi per tempo dal Partito socialista e a presentarsi come indipendente, evitando di sottoporsi alla fatica delle primarie e dei compromessi inevitabili con gli altri pezzi del partito — che avrebbero ostacolato in tutti i modi la sua scalata — e fondando invece un movimento personale, autoreferenziale. È stata una mossa vincente perché le elezioni presidenziali francesi sono per definizione elezioni personali (bisognerà aspettare infatti il risultato delle prossime legislative a giugno, per vedere se En marche! riuscirà ad accreditarsi anche come forza parlamentare significativa).

Ma dietro alla persona e alle forme non è difficile vedere lo stesso corpo elettorale del partito socialista  in versione blairista, da Terza via, di cui Macron incarna un volto meno goffo e inappropriato di Hollande — che peraltro nel 2012 aveva guadagnato l’Eliseo su tutt’altre premesse — e, a quanto pare, più simpatico e carismatico del “poliziotto cattivo” Manuel Valls, messo fuori gioco dalle primarie.

(spoiler per De Bortoli: sono uguali)

Così, En marche! ha scavalcato al “centro” il partito socialista, mentre La France insoumise di Mélenchon l’ha scavalcato a sinistra, causandone uno smembramento di fatto — per cui la cosa più logica è che quanto resta del Ps si riunisca al movimento di Mélenchon, per scampare l’irrilevanza. Sempre che i responsabili della sua rovina riescano a farsene una ragione.

La vittoria di un candidato dall’aspetto di primo-della-classe, etichettato da tutti come enfant prodige, ex ministro dell’Economia di uno dei governi meno popolari della storia francese, insistentemente europeista, privilegiato, agitatore di un programma genericamente liberista, appare come una rottura nello schema semplicistico in voga in questi mesi, quello dello scontro fra “establishment” e “populismo,” in cui il primo dovrebbe risultare invariabilmente sconfitto.

Macron rappresenta in un certo senso il colpo di coda dei “moderati,” o, se vogliamo, di chi non è stato danneggiato più di tanto dalla crisi economica e dalle politiche del lavoro degli ultimi governi — come dimostra invariabilmente la mappa del risultato elettorale, anche in questo caso estremamente polarizzata fra “città” e “periferia.”

Contemporaneamente allo spoglio dei voti, in place de la Bastille a Parigi sono andati in scena scontri tra polizia e manifestanti, eco delle proteste che hanno agitato le piazze della capitale francese nel corso dell’ultimo anno e mezzo, a ricordare che c’è un largo fronte di sinistra militante che ha scelto di boicottare le elezioni e che rifiuta tanto Macron quanto Le Pen — e che nel paese, comunque, vige ancora lo stato d’emergenza, prolungato almeno fino al prossimo luglio.

Mentre la parola “fine” del secondo turno deve essere ancora scritta, e conviene fare tutti gli scongiuri del caso contro un eventuale colpo di scena lepenista, il problema più grande di Macron è la sua tenuta futura. Non è ancora chiaro in cosa potrà differenziarsi, sostanzialmente, dall’esperienza di Hollande. E la ricetta che sembra voler provare a mettere in pratica, quella di un presidente democratico “all’americana,” be’, l’abbiamo già vista fallire un po’ dovunque.


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