Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Pawel Starzec, fotografo, sociologo e musicista polacco che ci fa viaggiare all’interno della scena underground musicale del suo paese.
Fotografo, sociologo, educatore, giornalista, Pawel Starzec lavora in ambito documentario come freelance con diverse testate. Oltre a sviluppare diversi progetti personali, tiene workshop e insegna.
Com’è la scena musicale underground in Polonia?
Ad essere sinceri è molto buona. Ci sono diverse band valide – mi vengono in mente Kurws, UZS, Przepych, Barlog – che iniziano ad avere un riscontro anche fuori dai confini nazionali, alcuni forse arriveranno anche in Italia. Un componente della mia band, i Mazut, ha anche un’etichetta grazie alla quale promuove diverse band di elettronica e non solo, organizza festival che sono aggregatori sociali molto forti.
Perché hai “ritratto” un’altra arte, la musica, con la fotografia?
Da sempre sono immerso nella scena punk locale della mia città natale. Volevo farne parte perché amavo il richiamo positivo e collettivo che questa scena locale portava. Una galassia di musicisti in continua evoluzione, alimentata più dalla passione che da eventuali introiti; decisamente più interessante delle radio stars. C’è anche da dire che prima di interessarmi sempre di più alla fotografia, per tanto tempo ho sognato di fare parte di una band. Questo mio interesse nei confronti della musica mi ha sempre portato ad avere tanti amici musicisti per cui spesso facevo foto durante i concerti.
Nel frattempo sono cresciuto, così si è evoluto il mio gusto estetico personale. Durante i concerti ho scattato con ogni mezzo possibile, una sorta di campo di sperimentazione continuo. Questo progetto, intesa come narrazione, insieme alla sua connotazione estetica uniforme, è venuta in seguito ai diversi approcci che ho utilizzato. All’inizio era più un flusso di coscienza fotografico. Jagmasters & Tape Hiss racconta di quanto possa essere universale questo concetto di scena musicale locale. Inoltre, le fotografie, che sono state scattate da Breslavia e Varsavia, sono state il mio lasciapassare per poter accedere a scene musicali simili in nuove località.
Quindi la musica rimane un hobby?
Ci ho provato per lungo tempo con la musica. Durante la realizzazione di Jagmasters & Tape Hiss mi sono spostato a Varsavia. Prima di allora avevo un gruppo di amici con cui suonavo – più un collettivo che una band – che ho dovuto lasciare quando mi sono trasferito. Ho provato con l’elettronica prima e con scatoloni Ikea pieni di pedali e sintetizzatori poi; sono andato avanti così per un pezzo, registrando in autonomia. Il disco poi l’ho messo a disposizione online per il download, i cui profitti vengono interamente devoluti alla mamma di un mio amico che si sta sottoponendo a trattamenti medici intensivi. Questo amico viene dalla scena punk locale cui facevo cenna prima, ed è proprio questo tipo di coinvolgimento che intendevo. Oggi riesco a fare dai 4 agli 8 concerti, ma è un diversivo, il mio lavoro non è fare il musicista e mai lo sarà.
L’utilizzo del flash ha un impatto molto forte sul tuo progetto. Da cosa deriva questa scelta?
È stata più una scelta guidata da necessità pratiche – anche se effettivamente mi piaceva l’effetto estetico che ne deriva. Ho lavorato a questo progetto usando un medio formato analogico, un vecchio flash Canon al massimo della potenza, così da avere un effetto bang sugli spazi affollati – un musicista una volta mi ha rimproverato, se così si può dire, per questa scelta. Come dicevo comunque Jagmasters non è nato da subito come un progetto: nel momento in cui lo è diventato ho voluto sperimentare estetiche mai provate prima. È una scelta consapevole, ma anche un esperimento.
In che modo ti hanno influenzato gli studi in sociologia?
Da una parte, agli inizi ho trattato l’arte e la sociologia in maniera distinta: non sono un fan della “fotografia sociologica” in termini di tipo di persone, per intenderci come August Sander. D’altra parte, dato che le persone e le loro relazioni sono il focus principale della sociologia, è una cosa naturale per chiunque abbracci il tema documentario in campo fotografico si occupi indirettamente anche di sociologia. Sono interessato piuttosto a trattare la musica come elemento culturale. Mi piace raccontare una storia partendo dagli elementi periferici, in maniera indiretta. Naturalmenete, quando penso a questo progetto ritrovo anche storie di comunità, di aggregazione, un omaggio ai luoghi in cui questa scena si muove e a quello che di positivo riesce a creare.