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Ottant’anni fa, in Italia, entrava in vigore la prima legge esplicitamente razziale. Non riguardava gli italiani di origine ebraica, ma i figli di uomini italiani e donne africane, nelle colonie del cosiddetto Impero.

La colonizzazione italiana, almeno nel nostro paese, è spesso vista come una versione “soft” del colonialismo europeo, dal volto gentile e cortese: ben diversa, insomma, dalle atrocità dei belgi in centrafrica o delle velleità imperiali inglesi in India. Eppure, anche l’Italia ha più di uno scheletro nell’armadio. Oltre alla violenza sanguinosa che fa per forza parte dell’ideologia coloniale, che impone una conquista brutale e un pugno di ferro per sedare le rivolte, la violenza italiana in Africa si è espressa anche in un modo più sottile, che è stato ugualmente ignorato.

Non stupisce quindi che non siamo abituati a sentire la parola “Madamato” — un termine che suona antiquato, ottocentesco. Eppure indica uno degli effetti collaterali più ingloriosi della storia coloniale italiana. Un buon modo per saperne di più è aprire Dizionario del fascismo, volume storico edito da Einaudi, che dà la seguente definizione:

Nel gergo coloniale italiano, per “madama” si intendeva la donna africana che conviveva o aveva una relazione stabile con un uomo italiano. Il termine “madamato” aveva una connotazione dispregiativa; fu coniato all’indomani della guerra d’Etiopia, quando Mussolini lanciò una campagna contro le unioni miste e le procreazioni interrazziali.” (Giulia Barrera)

Fin dalla conquista dell’Eritrea alla fine dell’ottocento, la prima vera operazione coloniale del nostro paese, molti uomini italiani che giungevano in Africa prendevano una “madama” per concubina. Nelle case e nella mentalità dei maschi colonizzatori italiani, queste donne avevano un ruolo intermedio tra quello di moglie e quello di schiava domestica. In questa prima fase, le autorità italiane incoraggiavano gli ufficiali del regio esercito a contrarre un rapporto di madamato, in quanto un rapporto di convivenza veniva considerato più conveniente rispetto ad una frequentazione abituale di prostitute da parte degli italiani.

Il madamato continuò a essere tollerato anche nei decenni successivi. Nel 1931, secondo i registri di stato civile, i figli di italiani nati da madre eritrea erano 515 su 4188 venuti al mondo nella colonia. Se i figli venivano riconosciuti dal padre, acquistavano automaticamente la cittadinanza italiana. In qualche modo, era molto radicata la teoria che fosse la “razza” del padre a determinare quella dei figli, condendola anche con supposte argomentazioni scientifiche.  È importante far notare che i rapporti di qualunque tipo erano consentiti e frequenti solo tra maschi italiani e femmine africane: non era in nessun modo consentito alla popolazione maschile locale alcun contatto con femmine bianche.

La situazione di abusi sulle eritree non fece altro che aggravarsi con l’avvento del fascismo, promotore di una retorica maschilista ancora più che — almeno in un primo tempo — esplicitamente razzista. La macchina di propaganda del regime, come contorno a una politica coloniale aggressiva verso tutto il Corno d’Africa, riempiva le teste degli italiani con immaginari esotici e lascivi, pieni di donne africane meno evolute e più disponibili pronte a concedersi ai colonizzatori italiani — basti pensare alla tristemente nota canzone “Faccetta nera.” Il possesso delle donne del posto era un ulteriore modo di affermare la superiorità fisica e morale del colonizzatore nei confronti del popolo sottomesso, resa evidente da differenze fondamentali come l’abitudine di sedersi sulle sedie.

Per rendere l’idea di quanto questa propaganda e questo razzismo fossero radicati in Italia e di come alcuni strascichi ideologici siano proseguiti a lungo — forse fino ad oggi — ci si può lasciar sconcertare da questo video degli anni sessanta in cui Indro Montanelli, uno dei più celebri giornalisti italiani, racconta orgoglioso di quella volta in Etiopia in cui ha comprato una sposa dodicenne.

 

Le cose cominciarono a cambiare in modo radicale dopo la conquista dell’Etiopia, nel 1936 — non certo per una maggiore sensibilità dello stato fascista in materia coloniale, ma per impedire che la razza italiana si mischiasse troppo con le vittime dell’occupazione. Come riporta sempre Giulia Barrera per Einaudi, in brevissimo tempo arrivarono in quella che era diventata l’Africa Orientale Italiana più di trecentomila militari e decine di migliaia di civili di pura stirpe italica, quasi tutti maschi desiderosi di compagnia femminile.

“I confini tra colonizzatori e colonizzati dovevano essere chiari e netti: bisognava evitare a ogni costo le procreazioni interrazziali, che rendevano pericolosamente incerti i confini tra italiani e africani. Agli occhi del duce, i meticci costituivano un’insidiosa fonte di sovversione politica e sociale.”

In più, l’Italia stava avvicinandosi alla Germania nazista e l’influenza di Hitler non tardò a farsi sentire, portando all’estremo il razzismo già più che abbondante nelle pieghe ideologiche del regime fascista. Nel gennaio del 1937, sul quotidiano “La Stampa” viene pubblicato un editoriale intitolato Politica di razza, redatto dal Ministro delle Colonie Alessandro Lessona, in cui il ministro stesso svela in anteprima un disegno di legge che rende punibile il madamato con una pena detentiva da 1 a 5 anni, colpevole di “inquinare la razza.”

La legge venne approvata il 19 aprile del 1937, esattamente ottant’anni fa, guadagnandosi il poco invidiabile titolo di prima legge razziale promulgata dallo stato italiano unitario — precedendo di qualche mese quelle antiebraiche. Non consola pensare che la legge venne spesso infranta, consentendo agli italiani di continuare ad impalmare le donne eritree — le quali, dopo la guerra, vennero abbandonate in tutta fretta insieme ai figli. Il madamato cessava così di essere tollerato dalle autorità solo per essere sostituito da un regime di apartheid.