Di chi è la colpa del populismo

Dopo la Brexit e le elezioni statunitensi, cosa hanno imparato Facebook e gli stati europei per difendersi dalla propaganda populista e nazionalista?

Di chi è la colpa del populismo

Dopo la Brexit e le elezioni statunitensi, cosa hanno imparato Facebook e gli stati europei per difendersi dalla propaganda populista e nazionalista?

All’indomani delle elezioni francesi, soli sei mesi dopo la catastrofe delle elezioni statunitensi, finite nel peggior modo immaginabile e dopo il risultato del referendum sulla Brexit, che non era immediatamente stato riconosciuto come parte di una tendenza politica così ampia, nessuno vuole prendersi la responsabilità del risultato della prossima tornata di elezioni in Europa. Dalla Francia la settimana prossima a quelle in Germania, passando per la sorpresa nel Regno Unito — e prima o poi si voterà anche in Italia.

Pochi giorni fa, Facebook ha annunciato di aver cancellato 30 mila account fasulli operativi in Francia. La nota, pubblicata dal team per la Sicurezza su Facebook, è un documento composto con cura maniacale: nelle 3596 battute l’azienda nemmeno una volta ammette di essersi offerta come piattaforma per la diffusione di propaganda populista, disinformazione e odio — il tono è interamente positivo, e quando si parla di attività malintenzionate, il testo taglia rapidamente corto:

Abbiamo scoperto che tantissime fake news sono diffuse per interessi economici, e, come parte del nostro lavoro per promuovere una società bene informata, ci siamo concentrati nel rendere molto difficile per persone disoneste abusare della nostra piattaforma o guadagnare da siti di informazioni fasulle usando Facebook.

Dalla nota, a firma Shabnam Shaik, manager del team per la Sicurezza dell’azienda, emerge un punto sottostante fondamentale: Facebook considera le accuse di aver giocato a favore dell’elezione di Donald Trump, rivoltegli da alcune aree liberal statunitensi, come la macchia peggiore sul proprio brand. La diffusione di propaganda attraverso i propri algoritmi — i quali favoriscono notizie che confermino le proprie convinzioni, perché naturalmente portano maggiori interazioni — non è visto dall’azienda come un problema sociale ma come un exploit di agenti malintenzionati.

Facebook e la Silicon Valley non sono soli in questo percorso che viene spacciato come un viaggio spirituale — ma che invece è la ricerca di qualcuno su cui scaricare le proprie responsabilità.

Un nuovo studio di Levi Boxell, Matthew Gentzkow e Jesse M. Shapiro — di cui ha scritto concisamente anche il caporedattore di Vox Ezra Klein — sottolinea che non può essere solo colpa di internet, perché la polarizzazione avviene soprattutto nelle fasce di popolazione che usano meno i social media. Klein approfondisce particolarmente come negli Stati Uniti il pubblico interessato da polarizzazione si informi particolarmente attraverso fonti non digitali — in particolare radio e tv.

L’altra causa, indicata da Gentzkow a Vox, è la crescente “income inequality” — la disuguaglianza di reddito. Questa, è, ovviamente, l’analisi più ragionevole: indubbiamente programmi che fanno del populismo la propria ragione d’esistere, come Fox News o Porta a Porta, sono responsabili del populismo — ma l’ascesa di movimenti nazionalisti e retrogradi è figlio del disagio della società: questa continua ricerca da parte della politica e della stampa di un capro espiatorio è segno fondamentale della mancanza di accettazione della profondità in cui si è abbandonata una parte della società dopo l’aggravarsi della crisi economica mondiale.

Oggi su Repubblica Michele Serra scrive:

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Serra solo tocca tangenzialmente il tema delle “colpe” presunte della democrazia, forse per la brevità imposta dall’amaca, forse fermato dallo stesso timore che spinge la stampa ad accusare internet, e i giornalisti digitali ad accusare la tv.

Torniamo su Facebook. In Italia, di gruppi e pagine maschiliste, sessiste, omofobe e razziste ce ne sono a migliaia: ci sono da quando Facebook permette di costruire spazi conviviali, e hanno da allora successo pressoché invariato.

È particolarmente interessante notare la diffusione di meme su Putin, su cui convergono l’ironia quanto mai mal riposta di utenti “di sinistra,” che celebrano Putin come figura di revival sovietico (ma dove) e pagine che invece celebrano la mascolinità, il razzismo, la durezza, del presidente russo.

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I teorici del complotto del partito democratico statunitense vedono chiari collegamenti tra i centri dell’Alt Right online e propaganda filorussa: in Europa questi collegamenti sono solo più chiari — complice i rapporti più distesi nel continente con la Russia. È possibile che la storia confermerà le tesi che vogliono una incidenza russa diretta nella propaganda populista europea e statunitense — in questo momento secondo noi sembra quantomeno evidente.

Ma potrebbe trattarsi, più semplicemente, di apofenia.

L’apofenia, che Klaus Conrad chiama “immotivata visione di connessioni,” è il riconoscimento di schemi in dati casuali — è il nostro cervello che cerca di dare un senso alla realtà, quando la realtà, a volte, non l’ha. Nel caso specifico, affrontando il problema della propaganda — online e analogica, mossa da interessi economici diretti o statale — è fondamentale tenere a mente che, in qualche modo, la provenienza materiale di questi contenuti d’odio non importa.

Cos’è cambiato rispetto a dieci anni fa, quando la retorica razzista di Casa Pound era iper-minoritaria, e considerata giustamente borderline?

È vero, la comunicazione aggressiva sul web ha travolto tanti che non hanno gli strumenti per valutarla correttamente: il caso più recente e lampante è forse il caso del meme di “Luciana Boldrini,” la sorella di Laura Boldrini che si arricchisce con l’assistenza ai migranti, ma che è Krysten Ritter nei panni di Jessica Jones — anche perché la sorella di Laura Boldini, Lucia, si occupava di restauro ed è morta anni fa.

Nel video, Luciana Boldrini e un immigrato nigeriano pestano duro un gruppo di “attivisti” poundini #casapounded

https://www.youtube.com/watch?v=T96vjUlr06Q

La risposta di Boldrini, così come quella di Facebook, trova la soluzione nel controllo dell’informazione — chiudendo decine di migliaia di account, e prevedendo norme e sanzioni contro gli abusi online. La blogosfera italiana, come tutte le volte che si parla di Stato su internet, è bella scossa dall’idea, e siamo sostanzialmente d’accordo siano norme in definitiva inefficienti: spazi per l’odio, online, ci saranno sempre — purtroppo, forse.

Lo stato però può combattere questa deriva, con un’efficacia con cui Facebook non potrà mai. Può combatterla rinforzando radicalmente le strutture sociali di assistenza, può combatterla lavorando a campagne di comunicazione che combattano ad armi pari con l’iper-populismo di privati o agenti russi che vogliate, può combatterla educando.

Facebook può collaborare, può aiutare, ma solo per pulirsi la faccia: lo scopo d’esistenza dei canali ausiliari del social network come le pagine e i gruppi è l’intrattenimento, e per questo, vivono per ragioni completamente diverse dalla corretta informazione.