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Oggi il popolo turco è chiamato al voto sulla riforma costituzionale, voluta e sponsorizzata dal presidente Erdogan. L’esito del referendum potrebbe stravolgere non solo l’assetto istituzionale della Turchia, ma anche gli equilibri politici ed economici regionali. Che cosa cambia se vince il sì? E perché questo possibile esito desta preoccupazione tra le fila dei Paesi europei?

La riforma è stata approvata lo scorso gennaio dai due terzi dell’Assemblea nazionale grazie ai voti dell’Akp, il partito di Erdogan che aveva dominato le elezioni nel novembre 2015 con il 49% dei suffragi, e di una frazione del Partito del Movimento Nazionalista (Mhp). Per diventare effettiva deve essere sottoposta a conferma referendaria.

Il pacchetto di 18 emendamenti va a modificare la costituzione in vigore dal 1982, esito del colpo di stato a opera del generale Evren. Nel corso dell’ultimo secolo, l’esercito turco ha forzato numerose volte i meccanismi democratici della Turchia, dal putsch del 1960 fino al più recente tentato golpe dell’estate scorsa (ve ne abbiamo parlato qui): nel contesto di stato di emergenza e di epurazione dei quadri militari che ne sono seguiti, la nuova costituzione ha il forte valore simbolico di ridimensionare il potere dell’esercito e viene proposta dal governo come lo strumento necessario per garantire stabilità politica e combattere il terrorismo curdo e jihadista.

In caso di vittoria del “sì”, la Turchia si trasformerebbe da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.

Il sultano della porta accanto

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Allo stato attuale il presidente è una figura rappresentativa e super partes (almeno formalmente), non ricopre incarichi in alcun partito, viene eletto dal popolo ogni 5 anni e nomina 4 giudici su 22 del Consiglio superiore della magistratura. L’Assemblea, rinnovata ogni 4 anni e costituita da 550 membri, legifera ed esprime un governo attraverso il voto di fiducia. A sua volta, il governo, guidato dal primo ministro, emana i decreti attuativi, soggetti all’approvazione del Consiglio di Stato.

Con il passaggio della riforma, la figura di primo ministro verrebbe meno e l’esecutivo passerebbe in mano al presidente: non più vincolato alla fiducia del Parlamento (allargato a 600 membri), né esposto a veti giuridici, il capo dello stato potrebbe ricoprire cariche di partito, e avrebbe il potere di nominare i propri ministri e 6 giudici su 13 del Consiglio — sarebbe esclusa da quest’ultimo la presenza dei militari. L’elezione del Presidente verrebbe vincolata alle elezioni generali, ogni cinque anni, favorendo l’elezione di un presidente e di una maggioranza parlamentare dello stesso colore politico.

L’unico contrappeso all’accentramento dei poteri è l’abbassamento della maggioranza parlamentare qualificata per approvare l’impeachment, da tre quarti a due terzi — sebbene vengano alzati i requisiti numerici per proporre lo stato d’accusa del presidente.

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Come fanno notare, tra gli altri, l’ISPI e l’Economist, ciò che distinguerebbe il presidenzialismo “alla turca” rispetto ad altre costituzioni analoghe è l’assenza di una serie di contrappesi istituzionali ed extra-istituzionali. L’indebolimento della magistratura, che nel 2013 aveva esposto per via giudiziaria l’entourage di Erdogan con la “Tangentopoli del Bosforo”, fa il paio con l’arresto di elementi di spicco dell’opposizione politica, quali il presidente dell’HDP Selahattin Demirtas, del giornalismo e della società civile. Le modalità di svolgimento della campagna referendaria, in cui il fronte del sì ha monopolizzato gli spazi pubblicitari e le tribune politiche, sono solo il preludio di come potrebbe apparire la Turchia con un uomo solo al comando.

In caso di vittoria del “no”, le redini rimangono nelle mani del presidente e del governo dell’Akp, che nell’Assemblea detiene la maggioranza dei seggi ed è osteggiato da un’opposizione frammentata e, perciò, innocua. L’unica minaccia credibile alla continuità del potere di Erdogan è una potenziale fronda interna al partito, che potrebbe portare a elezioni anticipate e determinare la fine di un ciclo politico, ma che tuttavia farebbe fatica a manifestarsi in un clima di ritorsioni e purghe come quello di oggi.

Nelle ore che precedono la chiusura delle urne, i leader politici europei guardano con apprensione al risultato referendario, mentre i maggiori organi di stampa del continente non esitano a bollare unanimemente la probabile vittoria del sì come l’affermazione di un sultanato assolutista. Per capire se questi timori sono fondati bisogna valutare in che modo un assetto presidenzialista dai tratti autoritari potrebbe danneggiare, oltre che le libertà civili all’interno del Paese, anche i rapporti con l’Unione europea.

Mentre sul fronte della gestione del flusso migratorio è ragionevole credere che la Turchia continuerà a esercitare il suo potere di ricatto a prescindere dal risultato della consultazione, in materia economica ci si chiede se si profila il rischio di un contraccolpo ai rapporti commerciali. Una parziale risposta la forniscono i dati storici.

La rapida crescita economica della Turchia nell’ultimo ventennio deve molto alle relazioni privilegiate con l’Ue: con la creazione di un’unione doganale nel 1996, gli scambi tra le due aree economiche si sono moltiplicati fino a raggiungere il volume di 140 miliardi di euro in beni nel 2016. Il clima di cooperazione economica ha incentivato l’ingresso in Turchia di ingenti capitali, favorendo lo sviluppo del Paese e scongiurando il rischio di insolvenza sovrana.

Oggi l’Ue è il primo partner commerciale della Turchia e dai paesi europei originano due terzi degli investimenti diretti dall’estero. A sua volta la Turchia è il quinto partner di EU-28, dopo USA, Cina, Svizzera e Russia. Il commercio internazionale rappresenta circa il 60% del PIL turco e la bilancia commerciale è costantemente in deficit, segni di una forte dipendenza dall’estero e in particolare proprio dal mercato europeo.

Nell’ultimo anno, la volatilità dell’economia turca si è manifestata ulteriormente in conseguenza al crollo del turismo europeo — l’incertezza dovuta al colpo di stato e al terrorismo ha esacerbato il trend negativo. Nel suo intento di ristabilire l’ordine, è difficile credere che Erdogan possa ignorare tutto ciò. Mettere a repentaglio i rapporti con l’Ue, rompendo gli accordi vigenti in materia migratoria, potrebbe portare al suicidio economico e politico. L’Europa, dal canto suo, avrebbe ampio margine — se solo lo volesse — per imporre condizioni politiche alla Turchia, dalla tutela delle libertà civili fondamentali alla trasparenza dei processi decisionali.

In questo gioco di ruoli e di rapporti economici, l’allineamento diplomatico di Erdogan con la Russia di Putin, che rappresenta un mercato ancora troppo piccolo per l’export turco, non costituisce una minaccia credibile. Tutto sommato, per quanto un tipo dai modi bruschi, il sultano della porta accanto non ha nessun interesse a voltarci le spalle. Per il momento.


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