Attacco in Siria: cosa passa per la testa di Trump
La decisione rappresenta una clamorosa giravolta non soltanto rispetto alle posizioni assunte sul conflitto siriano negli scorsi anni, ma anche nelle scorse ore
Questa notte, dal proprio resort privato in Florida Mar-a-Lago, Trump ha annunciato di aver ordinato un attacco militare sulla base governativa siriana da cui, secondo il Pentagono, sarebbe partito l’attacco chimico di due giorni fa a Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib. “È negli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti prevenire e contrastare la diffusione di armi chimiche.”
Trump era accompagnato da Stephen Bannon, Reince Priebus — e sua figlia Ivanka Trump.
“Anni di tentativi nel cambiare il comportamento di Assad hanno fallito — e hanno fallito drammaticamente,” ha detto Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha aggiunto come lasciare degenerare la guerra in Siria abbia peggiorato la crisi migratoria “mettendo in pericolo gli Stati Uniti e i propri alleati.”
L’improvvisa decisione rappresenta una clamorosa giravolta non soltanto rispetto alle posizioni assunte da Trump sul conflitto siriano negli scorsi anni, ma anche soltanto nelle scorse ore: una settimana fa, il portavoce della Casa bianca Sean Spicer aveva detto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare la “realtà politica” siriana, facendo intendere che il ritiro dalla scena di Assad — punto fermo dell’amministrazione Obama — non rientrava più tra le priorità. Un fatto ribadito a fine marzo anche dall’ambasciatrice statunitense all’Onu, e che — come sembrava prevedibile — avvicinava gli Stati Uniti al nuovo “amico-alleato” russo.
Ancora a poche ore dall’attacco di martedì, la posizione ufficiale di Washington sembrava essere quella di dare la colpa a Obama e alla sua “debolezza” nei confronti di Damasco. Il riferimento era alla famigerata “red line” posta dall’ex presidente nel 2013 e ampiamente sorpassata dal regime di Assad — in primis con l’attacco chimico di Ghouta, il più sanguinoso dei sei anni di guerra — senza conseguenze militari da parte statunitense, ma con una soluzione diplomatica — la distruzione degli arsenali chimici del regime — che, se fossero appurate le responsabilità di Assad nell’ultimo attacco, confermerebbe definitivamente la propria inefficacia.
Come al solito sprezzante del principio di non contraddizione, a quel tempo Trump era veementemente schierato contro qualsiasi intervento unilaterale in Siria. A far cambiare idea al presidente, secondo le ricostruzioni, sarebbero state le foto dei bambini di Khan Sheikhun — le stesse che ieri campeggiavano su tutti i giornali, canali televisivi, social network. L’immagine — vera o presunta — di Trump che si commuove teneramente di fronte allo strazio della guerra rappresenta un paradosso sotto più punti di vista: il primo, e più stridente, è che quegli stessi bambini non avrebbero diritto di entrare negli Stati Uniti come rifugiati.
Il secondo riguarda la realpolitik, o almeno la strategia militare: per quanto sanguinoso (oltre 70 morti), l’attacco di martedì non è stato né il peggiore, né il più grave, né il più carico di conseguenze — per quanto riguarda l’equilibrio delle forze in gioco — della guerra in corso. È stato, forse, il più grave da quando Trump è alla Casa bianca. Ma allora perché tutte le ostentazioni di clemenza nei confronti di Damasco nei mesi scorsi? Che la risposta militare di Assad contro i suoi stessi cittadini sia sanguinaria non è più una notizia da parecchi anni.
Il pentagono ha annunciato di aver lanciato 59 missili Tomahawk contro la base Al Shayrat in Siria. L’obiettivo erano jet, equipaggiamento radar, munizioni e postazioni di stoccaggio carburante. Al momento, le fonti siriane parlano di sette morti — ma le notizie sono ancora contraddittorie e poco certe.
Il portavoce del Vladimir Putin, presidente della Russia, ha commentato sottolineando come l’attacco costituisca un danno sostanziale ai rapporti tra Russia e Stati Uniti — sebbene il portavoce del Pentagono Jeff Davis sostenga che durante la giornata di ieri la Difesa statunitense sia stata in contatto con la base russa a Latakia per coordinare l’attacco ed evitare collisioni. Davis contraddice le dichiarazioni rilasciate in precedenza dal Segretario di Stato Rex Tillerson, secondo cui non ci sarebbero stati contatti tra Washington e Mosca prima dell’attacco.
Quello dei contatti con la Russia è il nodo centrale, su cui tutti — giustamente — concentrano l’attenzione: la mossa di Trump sembra infatti un palese “voltafaccia” e una minaccia non piccola agli interessi del Cremlino in Siria. Questa mattina Mosca ha annunciato che l’attacco statunitense si è tenuto sotto “false premesse,” che contravviene a qualsiasi norma internazionale, e che si vede conseguentemente costretta a sospendere il memo di due anni fa sulle misure di prevenzione per incidenti aerei sullo spazio aereo della Siria, in quella che è impossibile non leggere come una velata minaccia. Contemporaneamente, ha chiamato una nuova riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Dall’altra parte, fonti di intelligence statunitensi sentite dal Guardian rivelerebbero la presenza di personale militare russo nella base di Al Shayrat, al momento del carico del gas sarin poi sganciato a Khan Sheikhun — una notizia che suona inevitabilmente come un’accusa implicita di responsabilità.
Nonostante l’unilateralità e la rapidità della decisione, il Pentagono e la Casa bianca stanno incassando il supporto — almeno a parole — di numerose diplomazie: Regno Unito, Francia, Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Israele, Turchia e Arabia Saudita hanno tutti espresso approvazione per l’attacco missilistico. Il segretario alla difesa britannico Michael Fallon, parlando a BBC 4, ha comunque specificato che si tratta di un attacco “limitato” e ha escluso la possibilità di un’ingresso in campo del Regno Unito. Anche alcune formazioni dei ribelli siriani hanno salutato con favore l’attacco statunitense. Esplicite condanne sono arrivate invece dall’Iran e, con più cautela, dalla Cina.
Ha parlato anche il Ministro degli Esteri Angelino Alfano, definendo l’intervento militare “proporzionato” nei tempi e nei modi, efficace come deterrente per l’eventuale utilizzo futuro di altre armi chimiche da parte del regime siriano.
Ma comunque, Pace e Sicurezza:
Aggiornamento 14.55.
Anche l’Unione Europea si è schierata dalla parte di Trump: il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha rilasciato un comunicato in cui dichiara di “comprendere” gli sforzi per creare un deterrente a futuri attacchi come quello di martedì scorso. “L’uso reiterato di simili armi deve trovare una risposta.” Sulla stessa linea il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, che su Twitter ha scritto: “L’attacco degli Stati Uniti mostrano la necessità di una soluzione contro i barbarici attacchi chimici. L’Unione Europea lavorerà al fianco degli Stati Uniti per metter fine alla brutalità in Siria.”
Il governo siriano, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa statale SANA, ha definito gli attacchi “avvventati e irresponsabili.”
Nel frattempo, le bombe sono tornate a cadere sulla cittadina di Khan Sheikhun, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani — di stanza a Londra, ma con numerose fonti sul territorio.