Duemila anni di pregiudizi sul clima e sul carattere dei popoli

Dalle opere di Aristotele alle gaffe di Dijsselbloem, la “teoria dei climi” non ha mai smesso di influenzare il pensiero occidentale, tra stereotipi e chiacchiere sommarie.

Duemila anni di pregiudizi sul clima e sul carattere dei popoli

L’affermazione del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, ricavata una decina di giorni fa da un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha riportato alla luce una divisione profonda che taglia a metà il continente europeo almeno dall’inizio della crisi economica — ma che in realtà affonda le proprie radici in un retaggio culturale molto più antico. Non importa quanto la frase sia stata travisata, decontestualizzata o meno — probabilmente voleva essere soltanto una metafora, per quanto infelice, e non un riferimento esplicito alla presunta inclinazione dei popoli mediterranei per lo sperpero di denaro in alcol e donne — ma il fatto stesso che sia stata ricevuta con tanta indignazione da chi si è sentito chiamato in causa dimostra che, quantomeno, c’è un nervo scoperto.

In effetti, le bordate più o meno derisorie e denigratorie rivolte negli ultimi anni ai paesi del Sud Europa da parte dei “falchi” nordici dell’austerità non si contano nemmeno.

Lo stesso acronimo ufficioso di PIGS — da un po’ di tempo fortunatamente in disuso — la dice lunga sulle implicazioni immaginifiche della crisi del debito, percepita come una colpa non soltanto amministrativa, ma anche morale: i conti pubblici disastrati non derivano semplicemente dalla combinazione infausta di cattiva amministrazione e congiuntura economica globale, ma raccontano qualcosa della natura stessa di un popolo.

La presenza dell’Irlanda — indicata nell’acronimo come eventuale seconda I — metterebbe in crisi la semplice scansione latitudinale del problema. Ma, senza contare che gli irlandesi sono spesso considerati sostanzialmente dei terroni del nord, il quadro complessivo si può salvare adottando un’interpretazione all’apparenza più sottile delle due “anime” europee: cattolici (e ortodossi) contro protestanti. Recuperando Max Weber, le due “etiche” contrapposte troverebbero un’immediata traduzione sul piano economico e produttivo — gli eredi della tradizione luterana sono più istruiti, lavorano di più, lavorano più volentieri (un dato più mitico che reale), hanno meno inclinazione a truffare il fisco, e così via.

Vignette anti-irlandesi sulla rivista satirica Puck, 1881
Vignette anti-irlandesi sulla rivista satirica Puck, 1881

La divisione su base religiosa non è diversa da quella climatica — ne sposta soltanto più indietro l’origine. Perché la Riforma è avvenuta in Germania e non, per esempio, in Spagna? Si trattava anche in quel caso di una ribellione contro il Sud — la Roma dei papi — improduttivo, corrotto e dedito allo sperpero, e su queste caratteristiche fece leva un’imponente pubblicistica anti-cattolica, che si riverbera ancora oggi negli editoriali, nelle frecciatine, ma anche in proposte molto più serie e istituzionali come quella, ventilata in queste settimane, dell’Europa “a due velocità.”

I Paesi della sponda mediterranea, dal canto loro, cercano di capitalizzare la propria condizione di percepito e reale svantaggio competitivo facendo fronte comune — e così contribuendo a rafforzare le divisioni.

L’idea sotterraneamente razzista che ritiene i popoli del Sud intrinsecamente scialacquatori va ricondotta a una teoria pseudoscientifica da sempre molto popolare nella cultura occidentale: quella dell’influenza del clima sul “carattere” dell’uomo. Non sorprendentemente, la sua paternità spetta agli inventori del pregiudizio razziale in Occidente — i Greci, che ora vivono il curioso contrappasso di trovarsi dalla parte sbagliata dello Zeitgeist.

Aristotele — generalizzando luoghi comuni che si trovavano già nell’opera di Erodoto — riteneva che proprio i popoli del freddo nord fossero inadatti per natura a quella che oggi definiremmo la stabilità. Nel libro VII della Politica scrive:

Le genti che abitano i luoghi freddi e l’Europa sono piene di coraggio, ma mancano di intelligenza e abilità tecnica, e per questo vivono in relativa libertà, ma senza organizzazione politica e senza la capacità di dominare i propri vicini.

Viceversa, i popoli dell’Asia sono intelligenti e abili, ma fiacchi, e per questo destinati alla schiavitù. La perfezione ovviamente si trova in Grecia, che partecipa di entrambi i pregi ed evita i difetti, in virtù della propria posizione geografica mediana.

L’idea attraversa senza sostanziali variazioni tutto il mondo antico: la si trova nei trattati medici di Ippocrate così come nel manuale De re militaris di Vegezio, redatto quasi otto secoli più tardi, che raccomanda di reclutare soldati tra gli abitanti dei climi freddi, vigorosi e poco furbi — quindi disciplinati.

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Cambia l’asse geografico di riferimento, ma non il paradigma adottato: per i Greci, gli “orientali” (lidi, cari, medi, persiani) erano un prototipo di mollezza, rilassatezza dei costumi, passività; per i Romani, qualche secolo più tardi, tra gli “orientali” di tal genere rientravano a pieno titolo anche i Greci. Era l’Italia, non la Grecia, il luogo geografico perfetto per il suo clima ideale, magnificato da Virgilio e rivendicato, più tardi, dagli umanisti.

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In età moderna, la teoria dei climi fu recuperata dall’Illuminismo e applicata come regola generale non più soltanto al ristretto spazio europeo, ma al globo intero. “L’impero dei climi è il primo degli imperi,” scrive per esempio Montesquieu ne L’ésprit de lois, ripartendo fra le tre zone climatiche le tre forme di governo tradizionali (monarchia, repubblica, dispotismo), e spostando ancora più a Nord, tra i popoli germanici, il luogo cardine della purezza morale, del coraggio e così via.

Nell’Ottocento la mania di classificare il genere umano trova il proprio apogeo, e la teoria dei climi confluisce definitivamente nella sua naturale conseguenza: la teoria delle razze, sempre con l’intenzione — più o meno implicita — di affermare e giustificare anche sul piano “naturale” la superiorità politica, militare e culturale dell’Europa, in un’ubriacatura di etnocentrismo da cui l’Occidente non si è mai ripreso. Anche all’interno del continente europeo, però, continuavano a essere tracciate importanti distinzioni.

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Charles Victor de Bonstetten, svizzero, autore nel 1824 de L’uomo del Sud e l’uomo del Nord, o L’influenza dei climi, dedica per esempio agli italiani un intero capitolo del proprio libro. Ciò che in generale oppone gli uomini del Sud agli uomini del Nord è, secondo Bonstetten, una maggiore propensione ai sensi e all’immaginazione piuttosto che alla razionalità. “Le nature tropicali sono inclini a giudicare dai sentimenti, o in base a ciò che immaginano più che da ciò che vedono.” Così, “in Italia le persone appaiono assorbite dalle proprie impressioni, a un grado tale da non lasciare spazio per l’intolleranza: tutti agiscono secondo le proprie inclinazioni.” Viceversa, “il Nord non ha nessuna superiorità sul Sud, eccetto che per quanto riguarda il lavoro, il metodo, la perseveranza.”

I luoghi comuni della cultura libresca ottocentesca continuano a propagarsi ancora oggi, sotto forma di retorica spicciola, chiacchiere da bar o materiale da barzelletta — e in entrambe le direzioni del dibattito: tutta la retorica sul “genio italiano,” per dirne una, è solo un’altra faccia dello stesso schema di pensiero da cui derivano le generalizzazioni dei vari Dijsselbloem e Katainen.

D’altra parte, generalizzare e riassumere in pochi tratti stereotipati il presunto “spirito” dei milioni di persone che si trovano ad abitare lo stesso angolo del pianeta è un procedimento facile, rassicurante e frequentissimo a tutti i livelli, soprattutto quando si può discutere di qualcosa di comune a tutti, come il tempo atmosferico — che, si sa, è utile anche per rompere il ghiaccio.

Tralasciando le più immediate conseguenze economiche, le influenze dei fattori climatici sul comportamento dell’uomo (ma non su un presunto “carattere” dei popoli) non sono comunque da sottovalutare, come hanno evidenziato numerosi studi recenti: temperature più alte, per esempio, sembrano causare un aumento dell’aggressività, e nel 2013 un gruppo di ricercatori dell’Università di Berkeley ha provato a connettere l’innalzamento delle temperature con varie crisi e conflitti politici violenti nella Storia. Il fatto può sembrare abbastanza intuitivo, ma basta questo a contraddire già in partenza l’idea di Aristotele e di tutti i seguaci della teoria dei climi, secondo cui alle zone calde sarebbe da connettere un’attitudine fiacca, pigra e incline alla schiavitù. Tutt’altro.


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