Spotify ha annunciato ieri un nuovo accordo con Universal Music Group, la più grande label del mondo, aprendo per la prima volta a “esclusive temporanee” per le nuove uscite, riservate ai soli utenti paganti del servizio.
Tradizionalmente, l’intero catalogo di Spotify è sempre stato disponibile a tutti i propri utenti, anche chi aveva un profilo non a pagamento. Meno del 30% paga l’abbonamento mensile per la versione Premium, per quanto Spotify viva quasi unicamente dei propri utenti a pagamento — che costituiscono più del 90% della propria rendita — la generosissima offerta gratuita è quello che ha reso il servizio popolare nel mondo.
Le scritte in piccolo: Universal potrà mantenere gli album in nuova uscita esclusivi per gli utenti premium per due settimane. In cambio, Spotify ha preteso che tutti i singoli debbano sempre essere disponibili per tutti gli utenti.
A prima vista si tratta di un accordo win win: Universal guadagna una finestra di profitto più alto sulle proprie uscite più attese e disarma un argomento forte che Apple aveva nell’attrarre musicisti che non vogliono la propria musica diffusa gratuitamente verso il proprio servizio — Spotify paga royalties sostanzialmente più alte per gli ascolti degli utenti a pagamento, rispetto alla fascia supportata da pubblicità. In realtà, la decisione è molto più probabile riporti una fascia, soprattutto i giovanissimi, verso la pirateria. Il problema è anche di Spotify perché una volta allontanati dal servizio, è difficile gli utenti restino con il piede in due scarpe: un utente che pirata musica — anche banalmente rippando video da YouTube — difficilmente mescolerà il proprio ascolto con Spotify: finirà per rimanere nelle proprie cartelle di file mp3.
In realtà, l’accordo porta semplicemente Spotify in linea con gli altri servizi premium, permettendo a Universal di combattere la tendenza alle esclusive musicali, di cui abbiamo scritto approfonditamente in precedenza. Ma interessa solo il reame delle esclusive temporanee, e non delle sempre più diffuse produzioni white label o coproduzione che bypassano del tutto le case discografiche.
Il problema impossibile da risolvere, per Spotify e per le label, è come la musica sia stata completamente svuotata del proprio valore commerciale: non c’è una soluzione vera per costruire una rampa da utente gratuito a utente a pagamento. Si può produrre un’offerta allettante a un prezzo bassissimo — e l’offerta di Spotify, in particolare verso famiglie e studenti, è già assurdamente aggressiva — ma una fetta di utenti non sarà mai disposta a pagare per la musica, e l’unico effetto di questo accordo è rifiutare anche il misero guadagno che è possibile trarre dai loro ascolti “sponsorizzati.”
Nella migliore delle ipotesi, il colpo sarà percepito poco. La garanzia di avere sempre gli ultimi singoli per tutti gli utenti, e di poterli utilizzare nelle proprie playlist garantisce a Spotify in qualche modo di poter offrire una continuità di servizio verso i propri utenti, che in vasta maggioranza consumano musica ascoltando liste che l’azienda svedese e tantissimi altri servizi o testate pubblicano sull’app — e anche a the Submarine ne pubblichiamo una, tutte le settimane, con le nostre uscite preferite.
L’album, come formato, è stato il più colpito dalla bomba che la diffusione di internet ha lanciato sull’industria musicale: la pirateria ha, per la prima volta, facilitato la diffusione delle tracce singole — un modello di diffusione che è stato prontamente abbracciato anni fa dall’iTunes Music Store e dall’industria stessa. Oggi, con l’eccezione di artisti con un seguito “di culto” — siano essi mainstream, come Kanye West, o indie — è difficile vedere la reason why degli album.
The Life of Pablo è il primo album che riceve la “certificazione platinum” dalla RIAA (Recording Industry Association of America) di fatto unicamente da streaming, ma la decisione di Drake di chiamare il proprio ultimo progetto, More Life, una “playlist” invece che un album, indica un importante punto di svolta per l’industria.
La dissoluzione dell’esperienza musicale dell’LP in infiniti singoli è forse l’il singolo evento a cui ricondurre l’intera crisi dell’industria musicale — è sicuramente più difficile riconoscere il “valore artistico” di una traccia di tre minuti e quarantatre secondi in un mare di pezzi electroqualcosa che suonano tutti più o meno uguali. A volte c’è un tizio presomale con la voce profonda che canta su una base, a volte una tizia sussurra, e più o meno la differenza è tutta qui, per un ascoltatore disinteressato che preme il tasto shuffle su Spotify. E se l’ascoltatore non riesce a sentire il valore artistico di un prodotto, come si può pretendere che ne riconosca il valore commerciale? Le strategie tentate sono tantissime: dalla trasformazione mediatica della pubblicazione in “un evento” a progetti artistici assurdi come quello dei King Gizzard and the Lizard Wizard. Sono tutti esperimenti interessanti, e importanti, perché gli album sono una cosa bella, ma odorano tutti un poco di stanchezza, quando non di disperazione.