I am not your negro Perché la storia del razzismo americano è la storia dell’America stessa
Tratto da un racconto di 30 pagine inedito e incompiuto di James Baldwin.
Tratto da un racconto di 30 pagine inedito e incompiuto di James Baldwin, scrittore americano che si è battuto per l’integrazione del popolo afroamericano.
Ieri alla serata inaugurale del Festival del cinema Africano, d’Asia e d’America Latina è stato proiettato all’Auditorium San Fedele in anteprima il docufilm I am not your negro di Raoul Peck, tratto da un racconto di 30 pagine inedito e incompiuto di James Baldwin, scrittore americano che si è battuto per l’integrazione del popolo afroamericano negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Un’analisi profonda delle storture di una società violenta e moralmente apatica, raccontata con la profonda voce narrante di Samuel L. Jackson.
James Arthur Baldwin alla fine degli anni Quaranta si trasferisce a Parigi, insofferente per la situazione in cui viveva la comunità afroamericana negli Stati Uniti.
Fugge in Europa, perché il suo paese lo aveva rifiutato, così come aveva rifiutato l’integrazione: “Non sapevano cosa farsene di noi neri,” dice Baldwin.
Negli anni Sessanta torna a casa per vedere la sua famiglia, “ma non mi mancava nulla dell’America – dice – non ero un Black panther, non facevo parte dell’NAACP (l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, nata nei primi anni del Novecento, ndr), non ero parte della lotta, ma sono tornato.” Così Baldwin racconta l’inizio della sua lotta per l’integrazione, ossessionato dalla necessità di essere un testimone di quegli anni cruenti.
“La cosa sorprendente è che ero e mi sentivo americano,” ma “sentivo che i miei compatrioti erano i miei nemici.”
Poi arrivò la legge sui diritti civili, il Civil Rights Act del 1964. Ma il problema messo in evidenza da Baldwin è più profondo e radicato: “Gli americani erano dipendenti dal problema del negro, un capro espiatorio che serviva a evidenziare la loro purezza.”
Uno dei capitoli che scandiscono il documentario si intitola Eroi e parla di tre persone vittime della violenza razziale: Martin Luther King, Medgar Evers e Malcolm X — nessuno di loro ha superato i 40 anni.
Oggi sono eroi mitizzati, cristallizzati nella Storia che li ha trasformati in stereotipi. Baldwin parla delle loro divergenze e di come poi due pensieri tanto distanti come quello di King e X si siano avvicinati nella lotta; parla delle loro famiglie per non dimenticare che gli eroi sono da considerare persone e che la lotta che hanno intrapreso è stata reale — prova tangibile è il fatto che per essa abbiano perso la vita.
Baldwin è tornato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta perché, a contatto con un’altra cultura, si è trovato obbligato a riesaminare la propria: per questo l’attacco agli Stati Uniti è molto sentito, e senza possibilità di riscatto.
“Nessun altro paese è stato così untuoso, felice e irresponsabile, come gli Stati Uniti d’America” che hanno condannato il popolo afroamericano a 400 anni di segregazione.
“Il mondo non è bianco, bianca è la metafora che usiamo per il potere.” Un pensiero incredibilmente vicino all’arianesimo e al neonazismo che serpeggia oggi nuovamente tra le strade d’Europa e d’America.
La differenza è che negli Stati Uniti, come denuncia Baldwin, era ed è tutto diviso su due piani che non comunicano tra loro: da un lato c’erano Doris Day e Gary Cooper, dall’altra Ray Charles, ma mai assieme. L’incomunicabilità tra apparenza e sottosuolo è radicata nella cultura americana ma quello che succede in quel sottosuolo passa sotto silenzio, inglobato, divorato, dall’altra America, quello che Baldwin definisce “grandi bugie di una presunta umanità.”
Si vede chiaramente nella critica che fa Baldwin del cinema hollywoodiano che quando le grandi case cinematografiche hanno accettato la presenza di uomini e donne di colore negli anni Sessanta ne hanno fatto uno stereotipo dello schermo: Sidney Poitier non era visto come un paladino della causa ma come un’ulteriore barriera per l’integrazione.
Era un ulteriore stereotipo e, come tale, un modo per negare la realtà.
Baldwin opera una decostruzione del cinema americano: “nessun film è completamente innocente” dice la voce fuori campo che ripercorre lo scritto inedito, sopra ai fotogrammi di Indovina chi viene a cena.
Questa forte responsabilità è sentita dal regista Raoul Peck, che si è avvicinato a Baldwin fin da giovane. Filmmaker haitiano, nonché Ministro della Cultura di Haiti dal 1996 al 1997, Peck è sempre stato un attivista politico sensibile per la questione razziale.
Tra i suoi documentari più famosi ricordiamo Lumumba, del 2000, sul leader della lotta per l’indipendenza del Congo, Patrice Lumumba.
L’intuizione geniale di Baldwin sta nel riconoscere che la storia di un paese è il proprio presente: con questa affermazione rende il suo pensiero fuori dal tempo, legato fino a un certo punto esclusivamente agli anni della lotta razziale. Infatti oggi lo ricordiamo nella giornata internazionale contro il razzismo, come ha sottolineato il regista dopo la proiezione, davanti alla sala piena.
L’affascinante monologo spietato e arrabbiato di Baldwin, per quanto radicale e duro, non respinge il pubblico, coinvolto e commosso.
Trovate I am not your negro nei cinema, da oggi fino al 26 marzo, e the Submarine ve ne consiglia la visione. Unica vera colpa dell’edizione italiana del film è stata evidenziata da un ragazzo del pubblico nel dibattito dopo la proiezione al Festival: riguarda la discussa scelta dei sottotitoli italiani. La traduzione di nigger in negro ha sollevato polemiche, perché in italiano alla connotazione dispregiativa non è ancora arrivata una risposta di riappropriazione del termine, come fatto dalla comunità di colore statunitense.
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