Rileggere La Sinagoga degli iconoclasti
Il 16 marzo 1978 moriva Juan Rodolfo Wilcock, scrittore argentino naturalizzato italiano. Lo ricordiamo con un omaggio alla sua opera più celebre.
I collage di biografie sono meravigliosi. Mi spiego: avete presente l’Antologia di Spoon River? Ecco — quella giustapposizione di vite, fittizie o no, ognuna gustosa di per sé, ma che messe vicine l’una all’altra creano un effetto narrativo unico. Un libro di questo tipo sta al romanzo come il mosaico sta al dipinto; va gustata a pillole, una biografia o due prima di andare a dormire.
Purtroppo di libri così non ce ne sono moltissimi. Il primo che mi ricordo di aver letto, a dieci undici anni, è Bidoni: L’incubo. Raccontava le storie di calciatori stranieri presunti fenomeni, che giunti in Serie A avevano miseramente fallito. Io non amo granché il calcio — e quando ero piccolo lo seguivo più per un dovere, diciamo, che per effettivo interesse — ma quel libriccino che mi regalò mio padre mi appassionò come pochi altri fino ad allora.
L’anno scorso finalmente ho trovato il collage di biografie definitivo — o, almeno, il migliore che ho letto finora: La Sinagoga degli Iconoclasti, dell’argentino, naturalizzato italiano,Juan Rodolfo Wilcock. Non ne avevo mai sentito parlare, e all’inizio non avevo capito fosse un collage di biografie. Però costava poco; aveva nel titolo la parola “sinagoga” in un momento in cui ero davvero intrigato dalla cultura ebraica; e infine era edito da Adelphi — splendidamente edito da Adelphi.
Ah, c’era pure una quarta di copertina firmata da Roberto Bolano:
«Così giunse nelle mie mani La sinagoga degli iconoclasti, in un inverno freddo e umido, e ricordo ancora il piacere enorme che le sue pagine mi diedero, e anche il conforto, in giorni nei quali tutto faceva presagire solo tristezza. Il libro di Wilcock mi restituì l’allegria, come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al tempo stesso capolavori dello humour nero, come gli aforismi di Lichtenberg o il Tristram Shandy di Sterne … Oggi, diciassette anni dopo, esce in seconda edizione. Se volete ridere, se volete migliorare la vostra salute, compratela, rubatela, fatevela prestare, ma leggetela».
A scatola chiusa ho dato retta a Bolano, e ho fatto bene.
La sinagoga degli iconoclasti è una lunga carrellata di inventori falliti, pensatori bislacchi, persone convinte di aver compreso e risolto i problemi del mondo, e semplici pazzi — tutti assurdi ma allo stesso tempo plausibili: la linea di separazione tra i due estremi, a pensarci bene, non è così marcata.
“Con la sola forza della volontà il chirurgo Charles Wentworth Littlefield riusciva a far cristallizzare il sale in forma di pollo o di altri animali piccoli.”
Wilcock, ho scoperto poi, era un argentino figlio di un inglese che ha vissuto tutta la fase finale della sua vita in Italia, fino a morire a Viterbo, semi-dimenticato, negli anni settanta. La sinagoga degli iconoclasti infatti è scritto in italiano, visto che a quanto pare Wilcock aveva deciso che il nostro paese fosse la sua vera casa. Il che disorienta un po’, perché chi ha letto Borges sente forte gli echi della sua scrittura, di Aleph, in quella di Wilcock — i due in Argentina erano anche piuttosto amici. C’è una sorta di albero genealogico Borges-Wilcock-Bolano, che si è manifestato nella letteratura in spagnolo tranne che per questo gioiellino, nato per caso nella nostra lingua.
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Wilcock, nella scrittura, è più sorridente di Borges, più sarcastico. Questo è un libro allegro, anche se non felice, pervaso com’è da un’amarezza di fondo verso tutto ciò che gli uomini ritengono di valore in sé stessi — si potrebbe dire, verso la ragione e verso la razionalizzazione dell’irrazionale.
Wilcock, insomma, si inventa di sana pianta tutti questi soggetti bislacchi e poi li colloca a cavallo tra l’Otto e il Novecento, facendo di tutto per rendere la loro esistenza contestualizzata e verosimile: per molti personaggi inventa addirittura finte bibliografie documentate con supposta precisione, in cui le loro bizzarre teorie o scoperte sarebbero state esposte.
Il capitano John Cleveland Symmes riteneva che la Terra fosse fatta di cinque sfere concentriche, tutte e cinque forate ai poli. (…) Le sue teorie sono esposte in due libri, molto diversi l’uno dall’altro ma tutti e due intitolati La teoria delle sfere concentriche di Symmes, il primo pubblicato nel 1826 da un suo discepolo, e il secondo nel 1878, da suo figlio, Americus Symmes.
I personaggi, la prosa, la struttura: tutto è preso sul serio e fa a pugni con l’assurdità del contenuto. Proprio questo iato è la chiave per capire la bravura di Wilcock, e per godere appieno del suo lavoro. Il confine tra un noioso elenco di personaggi bizzarri e un’opera d’arte è molto sottile — passa da dettagli, da scelte espositive e formali. Chiunque può raccontare la sfortunata storia dell’inventore della pentacicletta, ma uno scrittore di classe insinua nel lettore un dubbio pazzesco: e se questo tizio, o qualcuno come lui, fosse esistito davvero?
Prima o poi, leggendo il libro, è inevitabile farsi questa domanda, o sentirsela ronzare nella testa. Se dovessi provare a inquadrare qual era lo scopo di Wilcock quando si è messo a scrivere La sinagoga degli iconoclasti, risponderei così: dare occasioni per porsi domande. Il libro ne è pieno, davvero. Ogni pagina, ogni racconto, ogni personaggio assurdo di Wilcock costringe a riflettere più a fondo riguardo, diciamo, al relativo campo di stupidità: il chiromante fa pensare alla superstizione, l’anti-darwinista alla religione, lo scienziato pazzo al positivismo, e via così. Pur non parlando di nulla in particolare, La sinagoga degli iconoclasti è un libro che arricchisce.
Non amo i libri e gli autori di libri che pretendono di avere le risposte in mano, che affrontano grandi domande sicuri di fornire risposte — i personaggi di questo genere sono tra le vittime preferite di Wilcock. Preferisco qualcuno che le domande si limiti a indicarle: La sinagoga degli iconoclasti lo fa.