Siamo stati alla K–FLEX in lotta contro la delocalizzazione in Polonia

K-FLEX fattura 320 milioni all’anno ma vuole smantellare la sua unica fabbrica italiana, lasciando a casa 187 operai.

Siamo stati alla K–FLEX in lotta contro la delocalizzazione in Polonia

foto di Marta Clinco

La K-FLEX è una florida azienda brianzola che produce materiali isolanti, fattura 320 milioni di euro all’anno, e vuole smantellare la sua unica fabbrica italiana, lasciando a casa 187 operai.

Negli ultimi due mesi, la vicenda dello stabilimento di Roncello Brianza ha occupato le prime pagine dei giornali locali e nazionali.

La famiglia Spinelli, proprietaria dell’azienda, ha deciso di trasferire la produzione in Polonia — “dove guadagnano cinque volte tanto,” secondo gli operai — senza nessuna considerazione per i propri salariati, addirittura rifiutandosi di partecipare alla maggior parte dei tavoli di trattativa organizzati dalle istituzioni se non tramite l’invio di comunicati.

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Chiaramente la vicenda ha richiamato numerosi politici che hanno voluto dimostrare la propria solidarietà agli operai — per volontà, o per convenienza. Domenica il presidio degli operai fuori dalla fabbrica è stato visitato da Luigi Di Maio; questa mattina, quando siamo andati a parlare con i lavoratori, ci siamo accorti di essere stati preceduti da un rampantissimo Matteo Salvini.

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Il Golden boy leghista ha stretto mani, detto frasi e tagliato una mozzarella — “visto che sei stato a Napoli, Matteo” — pranzando poi con un gruppetto di sostenitori. “È uno in più che porta un po’ di visibilità,” commenta un operaio del presidio, sconsolato.

“Qui però non casca benissimo, visto che la metà dei lavoratori è extracomunitaria.”

Molti di loro, infatti, lo guardano a distanza con sorrisi nervosi — magari, però, qualcuno finirà pure per votarlo.

In realtà, l’azienda non ha nemmeno fatto sapere le proprie intenzioni fino a quando non è stata smascherata da uno dei propri dipendenti.

“Al ritorno dalle vacanze di Natale mi sono accorto che dei macchinari erano imballati e c’era qualcosa di strano,” ci racconta un operaio.

“Così ho allertato gli altri e abbiamo cominciato la lotta, piantando il presidio per impedirgli di smontare i macchinari,” per portarli in Polonia.

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Da allora l’azienda non ha mostrato nessun riguardo per quella che è stata la sua prima sede, da dove K-FLEX è partita per costruire un piccolo impero nel settore dei materiali isolanti, in costante espansione e con fabbriche in tutta Europa. “Prima hanno iniziato a dire che il capannone non andava bene perché entrava dell’acqua dal tetto,” ci raccontano. “Ma nessuno si aspettava un fulmine a ciel sereno del genere. Ci sono già molte sedi in Europa, ma questa è la più grande e produttiva: perché chiuderla?”

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Già in paese ci avevano raccontato come negli scorsi anni alcuni operai polacchi fossero stati invitati in Italia per ricevere una formazione nella fabbrica di Roncello, la principale della compagnia. “Io negli scorsi anni sono andato molte volte in Polonia a insegnare delle cose,” ci racconta un operaio specializzato, “ma non mi sarei mai aspettato che lo scopo dell’azienda fosse questo.”

Il caso, per certi versi, è simile a quello della General Electric di Sesto: due stabilimenti prestigiosi e in attivo che, per motivi diversi, vengono chiusi. In comune c’è soprattutto il totale disinteresse dei proprietari verso chi, lavorando in quelle fabbriche, manda avanti una famiglia.

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L’azienda non ha ancora inviato le lettere di licenziamento, ma tutti sanno già che arriveranno presto. Lo stato d’animo, al presidio, in realtà è molto basso. Quando chiediamo a un gruppo di lavoratori cosa si aspettano di ottenere da questa lotta, uno di loro non riesce nemmeno a trovare le parole — si alza e se ne va. Un altro è convinto che i progetti della proprietà possano ancora essere fermati. Un altro invece, quando gli chiediamo se ci si aspetta un indennizzo per il licenziamento, sbotta: “Oramai è l’unica cosa che si può sperare.”

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Settimana scorsa ha fatto visita al presidio anche Roberto Rampi, deputato del PD di Vimercate, a cui abbiamo chiesto una dichiarazione sui fatti. “Il governo è stato presente nella vicenda e l’ha seguita direttamente. Il viceministro Bellanova è il ministro Calendario hanno avuto parole molto dure e nette — l’azienda prima non si presentava ai tavoli e ora ha iniziato a farlo. Seguiamo tutti i profili: quello dei finanziamenti, quello degli ammortizzatori sociali, e quello della pressione e della lotta, che è il più importante. Non sono le leggi che fanno la forza dei lavoratori ma la loro unità e la loro solidarietà tra loro e di un territorio: queste cose in questo caso ci sono. Anche perché le norme per evitare di trasferire la produzione in Polonia dovrebbero essere norme europee figlie di uno stato Europeo più forte. Questo è quello che vuole il PD quando dice più Europa e non meno Europa come altri. Se ci chiudiamo su noi stessi siamo finiti.”

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C’è poi una questione erariale che, per quanto secondaria rispetto al dramma dei lavoratori e delle loro famiglie, ha contribuito a gettare benzina sul fuoco — l’utilizzo di milioni di euro di fondi pubblici in investimenti esteri. La K-FLEX, infatti, ha incassato 12 milioni di euro dallo Stato. Avrebbe poi dovuto reinvestirli in Italia — ma sembra, invece, che siano stati utilizzati all’estero, tra medio ed estremo oriente. Inoltre, l’azienda avrebbe sfruttato altri 23 milioni di euro concessi dalla Cassa depositi e prestiti per acquisire delle piccole società in crisi sparse per il globo, salvandole dal fallimento e cominciando a ricavarne utili. “Quel denaro,” hanno dichiarato le sigle sindacali a Repubblica “è dei contribuenti italiani e poteva essere utilizzato per salvare il destino dei 187 operai dell’unica sede italiana, quella di Roncello.”