Tour Bus è la nostra indagine informale sullo stato dei festival musicali in Italia. Oggi scambiamo due parole con Simone Marcenaro, dell’associazione Balla coi Cinghiali.
Abbiamo visto che il modello europeo del grande evento estivo non è applicato in Italia. Ma ciò non significa che ne siamo totalmente sprovvisti. Il sottobosco musicale formato dai tanti piccoli festival sparsi sul territorio rende anzi il nostro paese pieno di realtà interessanti da scoprire, anche se organizzare un festival non è un’impresa facile.
Ne parliamo con Simone Marcenaro, dell’associazione Balla coi Cinghiali, nata dal 2006 ma attiva già dal 2002 a Bardineto. Alla prima edizione del festival c’erano solo un centinaio di persone, ma già 12 band sul palco — da allora il festival è andato crescendo di anno in anno, grazie alla qualità dell’organizzazione e al costo dell’ingresso, gratuito fino al 2011, nonostante nomi di peso in line up, come Roy Paci, Verdena, Ministri, Teatro degli Orrori e Linea 77.
Dopo due anni di pausa, si riprende nel 2014 con Fortissimo, un nuovo festival in una nuova location, il Forte di Vinadio nel Piemonte occidentale. Nel 2016 torna finalmente Balla coi Cinghiali, in una nuova veste ma con lo stesso spirito.
On air: Cinghiali incazzati / Ex-Otago
Iniziamo da voi, com’è andato l’anno scorso il ritorno di Balla coi Cinghiali dopo quattro anni di pausa?
È andato molto bene, abbiamo avuto un incremento di pubblico da Fortissimo, non enorme ma il trend è positivo: sui 3 giorni più di 10mila presenze. Una delle caratteristiche fondamentali di Balla coi Cinghiali (da qui in poi abbreviato in BCC) è l’essere una delle poche realtà italiane dove il nome della manifestazione attrae più della line up, quindi questo sicuramente ci ha aiutato nonostante gli anni di pausa. Il pubblico arriva perché conosce e ha imparato ad apprezzare l’esperienza che si vive a BCC. Abbiamo un pubblico molto fedele e questa è un’attitudine che si ritrova in altri festival europei, dove uno sa che trova una bella situazione anche senza guardare gli headliner.
C’è stato un cambiamento di location: da Bardineto si è passati a Vinadio, in particolare al Forte Albertino di Vinadio, dove nel 2014 e nel 2015 c’è stato Fortissimo e nel 2016 è tornato Balla coi Cinghiali. Necessità o scelta?
Necessità, perché ci sono stati dei contrasti con l’amministrazione di Bardineto. Era un paese di 600 anime che veniva invaso da 80mila persone, quindi ovviamente la logistica dell’evento era complessa. Il problema però era politico: un’amministrazione comunale seppur piccola deve comunque avere un’idea di politica culturale, e in questo caso non ha risposto positivamente alla proposta di BCC. Questo succedeva nonostante l’indotto economico fosse di tutto rispetto per la zona: quando eravamo ancora in Liguria, una laureanda genovese aveva condotto uno studio sull’impatto economico generato dal festival a livello locale: quasi un milione di euro. Il festival muove tantissimo perché, grazie ai suoi numeri ridotti (che in questo caso sono un aiuto) riesce a collaborare con le realtà piccole del territorio e quindi a generare un indotto che sul territorio ci rimane, relazionandosi con i fornitori in maniera diretta.Il comune di Bardineto nonostante questo non ci ha mai aiutato, anche a fronte di opere pubbliche fatte da noi e lasciate al comune. Se si va adesso a Bardineto, gli esercizi commerciali sono quasi tutti vuoti, perché rimanevano aperti grazie a noi. Quando siamo passati dalla Liguria al Piemonte nel 2014 la differenza si è sentita. Vinadio ha gli stessi abitanti ma ha deciso di promuoverci e darci visibilità perché ne ha tutto il vantaggio, e l’amministrazione ha sempre avuto interesse per le proposte culturali. Non ci hanno aiutato economicamente, anche perché non ne avrebbero le forze e non era il nostro obiettivo, ma dal punto di vista logistico sono stati molto presenti e sono loro che hanno permesso il ritorno di BCC. E poi la location è bellissima!
Parlando dell’organizzazione di BCC, e in generale della situazione italiana, come si sostiene economicamente un festival nel nostro paese?
Bisogna distinguere intanto di che tipo di evento si parla, possiamo distinguere tra le grandi rassegne estive e i festival di piccole-medie dimensioni, come noi. Le prime sono quelle che muovono i grandi numeri, sia di pubblico che di investimenti, come il Postepay Sound Rock a Roma. Avendo grandi nomi in cartellone possono permettersi sponsor privati che hanno interesse a investire — di fronte alla promessa di 30mila paganti chiaramente questi non mancano. Dall’altra parte i festival medio-piccoli hanno essenzialmente due strade: o chiedere fondi pubblici attraverso bandi, locali o regionali, ma non è semplice riuscire a vincerli. L’altra strada possibile è l’autoproduzione, come fa BCC, che è possibile solo grazie al fatto che il nostro è un lavoro volontario. Nessuno di noi è pagato, neanche chi lavora durante l’anno al festival, e solo così riesci a starci dentro. Noi facciamo tutti altri lavori durante l’anno, io per esempio insegno filologia romanza all’università. Contando che l’area food poi si ripaga da sola grazie al sovrapprezzo applicato, il grosso dei guadagni va nei cachet, nell’affitto delle strutture, nei lavoratori necessari e imprescindibili (dai fonici alla sicurezza), ma soprattutto in Siae e permessi vari.
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Rimanendo in Italia, ma in relazione al resto d’Europa, secondo te perché non si riescono ancora a organizzare grandi festival sul modello europeo?
Io mi sono fatto un’idea molto precisa, e credo ci siano due problemi principali. Il primo riguarda il pubblico italiano, che rispetto agli altri paesi europei non ha la cultura della musica dal vivo. Se guardi i numeri che fanno i grandi artisti internazionali, in Italia fanno numeri più bassi. Legato a questo di conseguenza non c’è la cultura del festival, per l’italiano medio ci può stare il concerto singolo o la rassegna di concerti, ma fa fatica ad avvicinarsi all’idea della vita in un festival. Il secondo problema, il più importante, è quello dei permessi e delle tasse. Il grado di autorizzazioni richieste per un palco è più alto di quello per un cantiere edile. Se ci aggiungi il costo della Siae poi diventa veramente dura, ti mangia tantissimo del netto che guadagni. Adesso poi c’è anche la SCF che gestisce i DJ, anche questa in regime di monopolio. In Inghilterra o in Francia le autorizzazioni sono molto più agili, e questa ovviamente è una scelta politica: da noi non si vuole spingere sulla cultura giovanile perché siamo un paese gerontocratico. Entrambe le cause insieme rendono dura la realizzazione di un evento ad alto livello.
Voi come organizzatori avete dei festival a cui vi ispirate? Modelli di festival ideali?
In Italia ci siano ispirati tantissimo al Rototom, che poi purtroppo è emigrato in Spagna. Come influenze straniere si parte da un riferimento obbligato che è Woodstock, da cui lo slogan di BCC: Come a Woodstock ma si mangia meglio. Ci piacciono molto i festival come il Coachella o il Glastonbury, anche qui per fare grandi nomi, perché nonostante siano diventati super mainstream e abbiano in cartellone Rihanna, puoi ancora rimanere a Glastonbury tutti i giorni del festival senza vedere il main stage, perché hai un sacco di altre cose fighissime da fare. Anche a BCC c’è un’offerta di attività laterali che lo rende attraente per tutti, dai giovani alle famiglie.
Un altro festival che ci è d’ispirazione è il Paléo, tanto che io sono andato un anno con un All Access Pass in quanto organizzatore di BCC per un’esperienza didattica proposta da loro stessi. Il senso era dare la possibilità ad altri di imparare dalla loro esperienza: sono avanti anni luce perché hanno imparato a sfruttare il festival come fonte di guadagno. Anche loro sono nati come una piccola associazione ma poi sono cresciuti e sono riusciti a comprare sia il terreno su cui ogni anno si svolge il festival, sia tutti i loro palchi, e guadagnano quindi tutto l’anno perché affittano entrambi. In Italia un imprenditore non penserebbe mai di investire in un festival.
Cosa si può fare per riuscire a migliorare la situazione italiana, partendo dalle capacità che abbiamo e coscienti di questi ostacoli?
Una cosa che manca è sicuramente un coordinamento nazionale. Se si facesse rete sarebbe solo positivo, sia perché difficilmente ci si intralcia gli uni con gli altri — ognuno ha il suo pubblico — ma anche per una questione economica, per esempio legata ai tour di artisti mondiali, i quali se riempiono più date nello stesso periodo possono uscire con un cachet ridotto. Così facendo vince l’artista e vincono i festival che da soli non riuscirebbero a chiamare un grande nome.
Esistono già realtà territoriali — noi siamo dentro un network del nord-ovest — ma per farlo a livello nazionale servono investimenti e un coordinamento al di sopra dei singoli festival, che si possa promuovere anche a livello istituzionale. Si creano posti di lavoro, si creano opportunità di sviluppo per zone di disagio economico, ma ancora la musica popolare non è vista come cultura al pari di musei, opere liriche e teatri. Eppure il nostro potenziale è enorme: per esempio adesso abbiamo una nuova leva di giovani che hanno iniziato a collaborare con noi, prima come volontari, poi nella produzione del festival. Speriamo che in futuro ci possa essere un riconoscimento politico dei festival come produttori di cultura ma anche come motore economico da cui si può ripartire.
La prossima edizione di Balla coi Cinghiali sarà dal 24 al 26 agosto 2017 al Forte di Vinadio (CN).