Dentro lo stabilimento General Electric occupato a Sesto San Giovanni

General Electric vuole chiudere una delle più antiche e importanti industrie pesanti italiane — per togliere di mezzo un concorrente?

Dentro lo stabilimento General Electric occupato a Sesto San Giovanni

General Electric vuole chiudere una delle più antiche e importanti industrie pesanti italiane — per togliere di mezzo un concorrente? Abbiamo incontrato gli operai che da mesi occupano lo stabilimento di Sesto San Giovanni.

Una cinquantina di operai sta occupando la General Electric di Sesto San Giovanni ormai da cinque mesi, pronti a tutto per salvare il proprio posto di lavoro. Sabato pomeriggio siamo andati a incontrarli nello stabilimento di viale Edison, nel cuore della Stalingrado d’Italia, ora un cimitero di palazzoni anni Novanta e giganteschi ruderi industriali abbandonati. Un tempo la General Electric si chiamava Ercole Marelli ed era varie volte più grande di oggi: solo a Sesto, dava lavoro a seimila operai. Era una delle più importanti e prestigiose industrie italiane. I lavoratori in lotta occupano uno degli ultimi capannoni ancora attivi.

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“Questo è il capannone “nucleare”, costruito negli anni ottanta con finanziamenti pubblici per le centrali nucleari italiane,” racconta un operaio mentre ci accompagna verso la struttura. “Noi negli ultimi anni abbiamo rifatto i componenti dei generatori di tutte le centrali nucleari francesi: le barre statoriche. Immaginati il generatore come una dinamo — c’è uno statore che è la parte fissa, in cui dentro va un rotore che girando crea energia. Quel pezzo l’abbiamo fatto qui, in questo capannone.”

Fino al 2015 lo stabilimento era di proprietà di Alstom, un’azienda francese che, tra le altre cose, ha costruito molti dei treni nuovi che operano sulle linee Trenord. “Là dietro c’è il settore ferroviario”, ci mostra uno dei nostri accompagnatori indicando un capannone dietro quello occupato. Su tutte le strutture c’è ancora il simbolo di Alstom, nonostante sia tutto della statunitense General Electric da più di un anno. Anche quando finalmente entriamo nel capannone, non sembra che sia avvenuto alcun passaggio di proprietà: su tutti gli oggetti, i macchinari e quant’altro è scritta la stessa cosa — Alstom, Alstom, Alstom.

“È tutto iniziato con un annuncio di cessione nel 2014,” proseguono gli operai. “L’antitrust europeo si era opposto, perché comprando il settore energetico di Alstom GE rischiava di avere il monopolio sul continente — soprattutto per quanto riguarda il settore turbine. Dopo un annetto di tira e molla l’operazione è stata ufficialmente autorizzata nell’agosto del 2015. La GE ufficialmente ci ha comprati a novembre 2015, e a gennaio 2016 ha annunciato 6500 esuberi in tutta Europa.”

Mentre chiacchieriamo siamo seduti al tavolo della piccola area soggiorno allestita dagli operai all’interno della fabbrica stessa. C’è sempre qualcuno che la sorveglia, giorno e notte, e dopo cinque mesi si è creata un’atmosfera di casa. Ci sono delle brande, un angolo cucina, un televisore. Alcuni operai stanno guardando una partita di Rugby — Galles-Irlanda. L’Irlanda sta perdendo. “Noi siamo ufficialmente licenziati da ottobre. Dal 27 settembre abbiamo proclamato l’assemblea permanente.”

Prima che lo stabilimento venisse acquistato dalla GE e la situazione precipitasse, gli operai rimasti erano circa trecentocinquanta, anche se molti — almeno: chi poteva — se ne sono andati dopo aver annusato l’aria lugubre. “L’anno scorso volevano licenziare 140 persone. Di quelle, siamo rimasti in 50. Noi, comunque, puntiamo ad ottenere di riprendere la piena produzione nel settore a cui abbiamo sempre lavorato. Il rilancio da parte di General Electric è impossibile, chiaramente: almeno si decidano a vendere a qualcun altro, ci risulta che ci siano dei potenziali acquirenti interessati.”

C’è qualcosa di poco logico nella successione di eventi che hanno portato a questa situazione drammatica. Perché General Electric ha acquistato l’azienda a novembre 2015 per annunciare già da gennaio — solo due mesi dopo — l’intenzione di sbaraccare tutto?

L’operazione, secondo gli operai, è abbastanza chiara.

“Hanno eliminato un concorrente. General Electric non ha comprato solo questo stabilimento, ma tutto il settore power di Alstom in Europa, che era un loro diretto concorrente. Da gennaio fino a maggio ci sono state una serie di consultazioni ed è andata così: i sindacati europei proponevano delle soluzioni diverse e GE ha sempre detto okay, sembra una buona idea ma noi andiamo avanti con la nostra. Hanno chiuso molti altri siti in giro per l’Europa, pensiamo che oramai abbiano praticamente finito.”

Una delle particolarità di questa lotta è il sostegno che le istituzioni hanno dimostrato agli operai coinvolti. Non capita spesso di sentire sindaci o viceministri che danno il proprio sostegno all’occupazione di una fabbrica. Il sindaco di Sesto, Monica Chittò, a settembre ha rilasciato una dichiarazione molto dura contro l’azienda americana:

“Nessuna delle verifiche richieste esplicitamente al tavolo del Governo fino all’ultimo incontro è stata fatta nel frattempo: né la prosecuzione delle trattative con l’investitore che aveva dimostrato interesse nei mesi scorsi, né la ricerca di una soluzione interna al gruppo GE. L’unica novità per venire incontro ai lavoratori che chiedono il mantenimento del posto di lavoro è stata la proposta di alcuni trasferimenti presso gli stabilimenti GE in Campania e in Puglia; insomma: una presa in giro.”

Attualmente, la vertenza è sul tavolo del Ministero per lo sviluppo economico, il MISE. Come ci fa notare uno degli operai, c’è una bella differenza tra il MISE e il Ministero del lavoro: “se vai al Ministero del lavoro parli di licenziamenti. Invece, il fatto che la vertenza sia allo Sviluppo economico, significa che l’azienda è considerata importante.” Strategica, addirittura. “Il MISE ha fatto un cosiddetto scouting, e ha individuato due aziende interne interessate all’acquisto. Siamo venuti a sapere, poco tempo fa, che GE ha fatto trapelare di poterci addirittura fare il favore di poter essere disponibili a vendere.” Un piccolo progresso dopo mesi di muro. Quando chiediamo se c’è un’idea delle tempistiche per l’affare, tutti ridono. “Aspettiamo la convocazione al Ministero,” ci dicono.

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Alcuni operai, continuando a chiacchierare, ci portano a fare un giro completo del capannone. Uno di loro, contemplando i giganteschi macchinari inattivi, si lascia prendere dal sentimentalismo: “È come il mare quando è calmo,” comincia a dirci, trasognato. “Piatto. Non c’è quell’energia del mare quando ci sono le onde…” Il suo collega lo sfotte, bonario. “Finiscila. Fagli vedere piuttosto lo statore.”

Parlando con gli operai si percepisce un certo orgoglio per quello che era il loro lavoro. Sono gli ultimi depositari di alcune tra le ditte più rinomate dell’industria pesante italiana ed europea, che dopo una lunga storia di cessioni e troncamenti sono arrivate a questo punto. “Sì, siamo due ditte a fare questi macchinari in Italia: noi e l’Ansaldo a Genova. Qui si parte dall’Ercole Marelli e dalla Tecnomasio Italiana Brown Boveri, quella che dà il nome alla fermata Lodi TIBB — quando hanno chiuso la fabbrica lì hanno portato le persone qua a Sesto. C’è un sacco di storia — e anche di brevetti — che sono rimasti qui dentro.”

Il bilancio dello stabilimento era in attivo — nonostante ciò, General Electric ha deciso di chiuderlo, adducendo motivi di ristrutturazione aziendale. “Avevamo delle commesse anche per l’Italia che sono state dirottate in Inghilterra, dicendo che costano meno… Per dei macchinari destinati a Parma! Sono trasporti eccezionali, uno statore può arrivare anche a trecento tonnellate: è difficile credere che possa davvero costare di meno produrlo in Inghilterra — potrei capire in Polonia o in Romania — e poi portarlo qui rispetto a produrlo a Sesto. È stata una scelta politica.”

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Terminiamo la nostra visita sul fondo del capannone, dove c’è la grande camera blindata per la prova delle turbine. Prima di essere consegnata, infatti, ogni componente va testata in condizioni del tutto simili — o anche più estreme — di quelle di impiego. “La camera blindata ha muri di cemento armato spessi più di tre metri,” ci raccontano. “Ce ne sono poche in Italia di camere così.” I muri devono essere spessi perché, come si può immaginare, una turbina da duecento tonnellate che “parte” non è molto salutare. “Una volta, in Iran, una turbina si è staccata mentre girava. L’hanno trovata lontano chilometri!”

“Se ci fossero le condizioni, potremmo tornare in attività praticamente domani,” ci spiega un operaio. “Anche a noi l’azienda aveva fatto un’offerta perché andassimo via, ma l’abbiamo rifiutata. C’è stato chi ha accettato e chi no — non entro nel merito, ma secondo noi non era un’offerta accettabile. A molti era stato proposto il trasferimento in Campania, cosa che addirittura il viceministro Bellanova aveva definito una provocazione.”

Usciamo dallo stabilimento, lasciando gli operai alla loro battaglia quotidiana. I cancelli dello stabilimento sono tappezzati di bandiere della FIOM e da una, spaurita, della CISL. Quando gliela indichiamo, alcuni operai sogghignano. “A livello nazionale anche la CISL è coinvolta nella vertenza, ma qui non è che si siano fatti vedere molto. Nello stabilimento sono tutti FIOM.” Mentre usciamo dai cancelli, entrano alcuni bambini, figli dei lavoratori, a trovare i loro papà.