Ascoltando la storia di Carlo Ravasio — un 84enne bergamasco che all’età di settant’anni ha deciso di camminare per 187 giorni, da Mosca a Valencia, da solo — è difficile non farsi venire in mente il paragone banale con un personaggio come Forrest Gump, con la sua coazione a correre e andare avanti senza un motivo preciso. Anche se Carlo, per la verità, di motivi ne aveva. Primo fra tutti — come ha raccontato a Nicola Feninno di CTRL Magazine, che con un lavoro quasi filologico ne ha ricostruito l’esperienza — l’ecumenismo: attraversare l’Europa, dal cuore della cristianità ortodossa alle coste mediterranee della cattolicissima Spagna, per recuperare simbolicamente un’unione perduta, perché “il senso più bello della vita è il senso di stare insieme.” Un pellegrinaggio. In quest’ottica, il cammino di Ravasio allontana da sé qualsiasi connotazione pop — che si tratti di Gump o di Christopher McCandless o della retorica da Interrail — e rivela la propria natura sotto una luce più antica, quella di un’epoca in cui percorrere a piedi le strade sterrate del vecchio continente non era così insolito, e il tempo aveva un’altra consistenza.
Ma non c’è solo l’ecumenismo. Ravasio ha analizzato con precisione ingegneristica le motivazioni che l’hanno spinto a intraprendere il viaggio, includendole nei raccoglitori colmi di fotografie e appunti accumulati durante il tragitto, ora conservati in parte a Valencia, in parte alla biblioteca Angelo Mai di Bergamo — ecco perché ho parlato di filologia. Anche le scarpe avrebbero dovuto trovare posto in un museo spagnolo, ma sono state inavvertitamente buttate via da un addetto delle pulizie.
Con il viso scolpito in profondità nelle ossa del cranio, Carlo commenta la propria avventura — oggi, a distanza di più di quattordici anni — con una sincerità da bambino, senza nessuna pretesa di eccezionalità. Ha due lividi sugli zigomi e una ferita rimarginata sul setto nasale, tracce di una caduta dalle scale pochi giorni fa, su cui minimizza: “Mi sono rimesso in piedi da solo, è bastato aspettare che smettesse di uscire tutto quel sangue. Il naso ha fatto da buon ammortizzatore.”
Davanti alla platea di persone — tutte più giovani di lui di quattro o cinque decenni — che sono venute ad ascoltarlo, in occasione della presentazione del nuovo numero di CTRL a Milano, guarda le foto scorrere sullo schermo alle sue spalle e qualche volta sembra sorprendersi che il tempo sia passato, gesticolando col microfono: “Eh ma guarda che bel colore che avevo!” (nella foto sorride seduto sul muretto di un lungomare, effettivamente molto abbronzato).
Si capisce che il pensiero di Carlo viaggia su altre frequenze, ma è quasi inevitabile fargli domande banali, terra terra, le prime che vengono in mente di fronte a una storia simile: quanti chilometri camminavi al giorno? Che cosa avevi con te? Hai mai avuto paura? Ti sei mai perso? Dove dormivi la notte? A cosa pensavi, tutto quel tempo da solo? Con quanti soldi? E così via.
Dalle sue risposte emergono i fondamenti di una filosofia personale impossibile da confutare. “Per il mio carattere, non ci sono cose difficili. Non mi sono nemmeno portato dietro la bottiglia d’acqua — che è un chilo, e se devi camminare tanto si fa sentire. Quando avevo sete, mi guardavo intorno, cercavo, trovavo. Se hai un problema e pensi di poterlo risolvere portando dietro qualcosa, aumenti soltanto la tua fatica.”
“Se perdi tempo a guardare, non arrivi più.”
Ma gli oggetti hanno la loro importanza. Protagonista del viaggio, insieme a Carlo, è il modesto carretto su cui trasportava il proprio piccolo bagaglio. Carlo lo ricorda con l’affetto che si riserva a un vecchio amico. “Era proprio un bel carretto.” Prima a due ruote, poi sistemato da un meccanico lituano con l’aggiunta di una ruota — e allora andava che è un piacere — poi riverniciato in Francia, e aggiustato ogni 150 chilometri — “il tagliandino,” fa notare qualcuno dal pubblico. In una delle foto, si vede il carretto sul ciglio di una strada affollata di tir bloccati in coda, l’umano accanto al disumano.
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Prima di partire, Ravasio si trovava a Mosca da quattordici anni. Aveva lavorato al progetto del primo computer da tavolo dell’Unione Sovietica, per conto di un’azienda del bergamasco, e poi era stato testimone della sua caduta. Dopo il viaggio a piedi verso la Spagna, non è mai più tornato in Russia, ma ne conserva un ottimo ricordo. In primis degli uomini, e del loro carattere “forte.” Poi della città, Mosca, che è “davvero una città da visitare — e non lo dico per fare pubblicità,” ci tiene a precisare.
Consigli per i viandanti:
- Se non conosci la strada, è meglio evitare di cercare scorciatoie attraverso i boschi, perché è facile sbagliarsi.
- Imparare la tecnica della sosta notturna di lunga durata: ci si ferma in un autogrill, o in un qualche bar tavola calda aperto tutta la notte, e si continua a ordinare qualcosa di tanto in tanto — meglio se in un tavolo defilato. Quando viene il sonno, ci si assopisce seduti, dormendo a brevi intervalli. Verso le cinque del mattino si riparte.
- Salutare sempre gli altri camminanti, ma senza sentirsi obbligati a camminare insieme.
- Non contare i chilometri. “Sulla cartina sembrava abbastanza vicino,” spiega Carlo candidamente. “Camminando, il senso della distanza si fa più relativo.”
L’ecumenicità risalta, in prospettiva, sullo sfondo della dimensione locale, da Bottanuco — dov’è nato — a Calusco D’Adda, dove vive tuttora. Carlo riesce a tenere insieme le due cose senza difficoltà, e alla fine dell’incontro, durante gli applausi, esprime l’orgoglio di essere qui a raccontare la propria vita “da bergamasco, in quanto bergamasco.”
Una vita in cui non c’è niente da rimpiangere — “Ho visto tante cose… Ho fatto proprio una vita bellissima, più bella di così!”. Una risposta puntuale, data a una domanda precisa — cosa facevi durante il cammino? — suona come epigrafe conclusiva di tutta l’esperienza, e sfida — senza nessuna intenzione di farlo — l’intero sistema di valori su cui si regge oggi la nostra società: “Francamente, non ho perso tempo.”