Ieri sera dopo uno stillicidio lungo settimane, si è consumata la scissione dell’area di “minoranza” del Partito Democratico.
È un momento di enorme importanza storica, che pone la politica italiana di fronte a un bivio — o si inventa una nuova sinistra, o la sinistra in Italia finisce.
È molto, a dire il vero, che si parla di nuove cose a sinistra, in Italia. L’inizio di questi discorsi è riconducibile al momento in cui è stato chiaro che il Pd sarebbe finito nelle mani di Matteo Renzi, durante i turbolenti giochi di palazzo che hanno costretto in maniera rocambolesca Bersani a dimettersi da segretario e fare un passo indietro per permettere al partito di fare il governo di “coalizione d’emergenza” con il centrodestra. Molti si sono già messi per strada — Sinistra Italiana, Possibile, Campo Progressista di Pisapia. Ma come si fa una nuova sinistra in Italia?
È un problema di difficilissima realizzazione, anche e soprattutto per mancanza di forza mediatica da parte di tutti i possibili ambiziosi alla leadership in quell’area della politica. E il problema non si pone per sole questioni di ricerca di un “uomo forte,” ma proprio per una questione di presenza — Letta e Gentiloni sono perfette espressioni di politica centrista di governo, ma nella prossima campagna elettorale, che sarà punteggiata solo di razzismo e sparate populiste, non hanno modo di reggere una settimana.
Capire le difficoltà per la sinistra “storica” di parlare nel contesto politico italiano è fondamentale per capire le ragioni di questa scissione, che sono tanto politiche quanto sul modo di far politica.
Sono stati tre anni durissimi per la minoranza Pd, perché tra una Buona Scuola e un Jobs act c’era da sopportare i nuovi metodi della politica, populista, sciocca, semplicistica; e un nuovo sistema di valori, progressisti in ambito di sinistra radicale, ma a stento definibili da centro in materia economica.
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Ma si tratta di una Rifondazione Democratica, quindi? Ai microfoni di the Submarine Chiara Geloni, tra gli scissionisti, dice di no: “Io considero ancora valide le ragioni per cui vent’anni fa ho aderito all’Ulivo, e poi al Partito Democratico. Non sono valide solo per il partito, ma anche per il Paese. Non è una rifondazione, ma questo Pd non è più la casa comune che avevamo immaginato, non è più il partito aperto alla società.”
La domanda a cui il Pd dovrà rispondere nei fatti, è se il partito resterà di centrosinistra, dopo una così corposa fuoriuscita, o se solo di centro — in che misura si darà spazio per politiche progressiste, per un partito che sembra inevitabilmente indirizzato ormai verso nuove alleanze di centro e centrodestra, con Berlusconi primo della fila. Il parlamentare — democratico — Roberto Rampi ci dice che “nel Pd rimane molta sinistra: se guardo al mondo e vedo i leader della sinistra i nostri sono nel Pd,” ma sulle alleanze non si sbilancia, “sul dopo voto dipende dalla legge elettorale.”
Abbiamo chiesto a Michele Emiliano in che misura crede ci siano spazi per politiche di centrosinistra all’interno del Pd, ma al momento della pubblicazione non abbiamo ancora ricevuto risposta.
In effetti la prima impressione di un osservatore — di un elettore — su quanto è successo in questi giorni è che tutto questo polverone sia frutto di una manovra di palazzo più che di uno scontro verace tra due idee politiche differenti. Non tutela dei lavoratori contro liberalizzazione, o contro la Riforma Fornero — ancora al centro del malcontento pubblico. Ma tessere, congressi, mozioni, cose.
Eppure va fatta una precisazione. Chiunque abbia frequentato il Partito democratico sa bene quanto le idee politiche e il modo di metterle in pratica, ovvero la forma–partito pesante come è stata ereditata dal PCI, siano inseparabili. È la famosa “ditta,” per la quale Bersani e molti altri sono — o sono stati — disposti a sacrificare quasi anche la vita, ma che Renzi ha provato ad abbattere fin dal primo istante: perché lontana dal suo modo di vedere la politica e perché considerata da lui una minaccia al suo potere — non a torto.
Una delle domande meno ovvie ma più concrete e importanti infatti riguarda proprio la spartizione della ditta, nelle sue due componenti: persone e posti. Le persone sono la famosa “base,” il piccolo esercito di militanti — che si va assottigliando da anni, ma è ancora molto numeroso — che costituisce l’ossatura fondamentale del Pd, e che questo nuovo soggetto potrebbe aspirare a conquistare o riconquistare. La base non è mai stata renziana come Renzi avrebbe voluto. Ma i fuoriusciti saranno in grado di convincere una parte consistente di questi militanti a seguirli in un salto nel buio? Nonostante Bersani e D’Alema abbiano un grande ascendente sul territorio, resta una scommessa molto azzardata.
La domanda a cui gli scissionisti devono rispondere a queste persone prima che al paese è, prima di tutto, perché ora.
La domanda più frequente di qualunque iscritto o membro della base, non è tanto se la scissione sia stata la scelta giusta, ma perché non ve ne siete andati quando è stato votato il Jobs Act? Gli scissionisti non si stanno dimostrando molto forti e pronti a rispondere a questa domanda — ma è una domanda fondamentale per convincere una buona fetta di iscritti, e soprattutto ex–iscritti, a seguirli.
La seconda incognita, più venale ma forse ugualmente importante, è la spartizione delle mura. Quando si divorzia, solo uno si prende la casa. È così anche in questo caso. Il Partito democratico ha ereditato dal PCI una struttura capillare di presenza sul territorio: sedi di partito, terreni, stabili interi. Questi immobili non sono di proprietà diretta del Pd, ma fanno capo a una serie di fondazioni legate al partito in modo non molto chiaro — ma ferreo. È una situazione nebulosa, residuo di misure lasciate dai DS in momenti lontani dalla fondazione del Pd proprio in previsione di uno scenario come quello di questi giorni: si fusero con la Margherita senza comunione dei beni, che rimaneva interamente in mano a innumerevoli terze parti. La situazione però non è chiara come i fondatori speravano: le intenzioni delle varie fondazioni sono tutt’altro che certe. Potrebbe darsi che solo una parte — o poche, o nessuna — scelgano di seguire gli scissionisti, ed essendo organismi grossomodo provinciali o regionali, si potrebbe determinare una situazione a macchia di leopardo, con un nuovo partito molto radicato su certe parti del territorio nazionale e assente in altre — un partito regionale.
Purtroppo però tutte queste osservazioni sono difficilmente spendibili presso l’elettorato di centrosinistra non iscritto al Pd. Il risultato di queste manovre convulse è che l’elettore di centrosinistra tipo non ha capito il perché della scissione, e dunque il perché dovrebbero votare gli scissionisti anziché il vecchio Partito democratico — che, come abbiamo accennato, rischia di spostarsi però sempre più a destra.
Cosa possono fare adesso gli scissionisti? Speranza e gli altri hanno parlato più volte di un nuovo spazio a sinistra del Pd — ma a sinistra del Pd sta già facendo qualcosa Pisapia, ed entrambi sembrano naturalmente orientati ad alleanze con il partito di Renzi — ma se la nuova forza di Pisapia ha il beneficio di relativa verginità, la storia sarà molto diversa per la nuova realtà dei fuoriusciti: come giustificano un’alleanza a destra con il partito dell’uomo per cui hanno lasciato la loro naturale casa?
È difficile prevedere se per la salute del nuovo partito sarebbe preferibile un’alleanza con il Pd, o la solitudine al netto di un tradimento centrista da parte del Partito di Renzi: cosa può fare la “Nuova Sinistra” da sola, o con un paio di altri partitini, oltre a scalare la montagna del 10 percento, sperando di staccare quanto più può il 5%? E d’altro canto, come può essere attraente una coalizione di centro-sinistra con una serie di partiti più o meno di sinistra da cui scegliere sul menù? La bistecca la vuole al sangue, media, o ben cotta? Cruda, grazie.
Il luogo comune e un po’ la retorica vogliono che ogni fine sia un nuovo inizio, e mentre l’Europa si prepara alla triplice sfida Francia – Germania – Italia per contrastare l’avanzata del populismo che sta sconvolgendo gli Stati Uniti, è impossibile non guardare la sinistra disastrata italiana con estrema preoccupazione, ed è impossibile non prevedere le difficoltà che dovrà affrontare chi si investirà del ruolo di ricostruttore, mentre chi dovrebbe occuparsi di curare il destino del centrosinistra magari con calma torna dal fare il surfista californiano a febbraio.
Non per caso si chiamava rottamazione.