Generazione Disagio, tra cabaret e cinismo
In occasione della nuova replica milanese di Dopodiché stasera mi butto, abbiamo scambiato due parole con Andrea, Enrico e Riccardo di Generazione Disagio, per parlare di drammaturgia collettiva, cinismo e — ovviamente — disagio.
In occasione della nuova replica milanese di Dopodiché stasera mi butto, abbiamo scambiato due parole con Andrea, Enrico e Riccardo di Generazione Disagio, per parlare di drammaturgia collettiva, cinismo e — ovviamente — disagio.
Durante un’intervista iniziata in ritardo in una caffetteria arancione al riparo dalla pioggia domenicale, Andrea Panigatti (che se n’è andato presto), Enrico Pittaluga e Riccardo Pippa, attori e coinquilini i primi, regista l’ultimo, ci hanno raccontato come, da cosa nasce e come si sviluppa l’attività di Generazione Disagio. Dalla compagnia, fondata nel 2013, sono usciti due spettacoli come Dopodiché stasera mi butto — le cui repliche milanesi saranno visibili dal 9 al 12 febbraio al Campo Teatrale — e Karmafulminien-Figli di puttini. Il primo è strutturato come un gioco dell’oca a cui partecipano gli spettatori, con proprietà terapeutiche nella sfida all’accettazione del proprio disagio. Nel secondo viene sbertucciata la tendenza tutta contemporanea di rivolgersi a un oltre (dio o quello in cui si crede) in casi di estremo bisogno e, ancora, disagio. Ad assisterci troviamo i figli di puttini, ultima categoria angelica, dei quasi uomini disagiati peggio degli umani loro affidati. Andiamo a scoprirne di più.
Quanto conta l’esperienza di Generazione Disagio nella vostra formazione?Andrea: Noi ci siamo conosciuti in Paolo Grassi, attraverso un altro spettacolo, e ci siamo uniti anche con un altro attore che ora è a Madrid — Aleandro Bruni Ocana. Questo legame avviato in accademia ci ha dato modo di incontrarci anche mentre facevamo lavori in teatri stabili… No, aspetta, basta sono stufo dire balle, non è affatto vero, non ho mai lavorato con un teatro stabile.
Enrico: E allora perchè lo dici?
Andrea: Lo fanno tutti… Comunque il legame goliardico che ci contraddistingue è essenziale. Magari abbiamo avuto l’occasione di vivere l’esperienza, necessaria, di lavorare con persone diverse da noi e in quei casi si cresce, ma poi abbiamo deciso che avremmo potuto sacrificare altre opportunità per creare dal nulla qualcosa, insieme.
Riccardo: Mettendola in modo così romantico fai sembrare che per questo progetto abbiamo rinunciato a chissà cosa… Insomma! Scherzi a parte, ci siamo scelti. Andrea ovviamente era stufo di lavorare nei teatri stabili, ed eccolo qua.
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Andrea: Il fatto vero è che siamo stati ieri sera ad una festa, all’Atir Ringhiera, abbiamo appena finito un laboratorio e sto pensando che devo andare da un’altra parte. Questo è il flusso attuale dei miei pensieri. Quanto ha inciso sulla mia formazione? GD prende una fetta importante delle mie giornate. Purtroppo in questo momento sto misurando la vita in tempo, in disponibilità che riesco a riservare a ciascun progetto. GD mi dà la possibilità di fare questo lavoro, l’attore, ma nessuno di noi vive di solo disagio. Dobbiamo fare altre cose, tutte che orbitano attorno al campo, ma le difficoltà economiche dovute al non avere uno stipendio fisso le sentiamo tutte.
Andrea: Ognuno ha priorità diverse, io sono rappresentante legale di Teatro dei Gordi, Riccardo cura la regia di un altro spettacolo Sulla morte, senza esagerare e so a memoria il mio codice fiscale, quindi sto invecchiando. Come loro, del resto.
Quando e come avete cominciato e capito che tra voi c’era la giusta sintonia per un progetto simile?Enrico: Il primo incontro in accademia Grassi, da cui tutti proveniamo, risale a dieci anni fa e il nucleo di partenza per lavorare su GD era composto da me, Graziano Sirressi, Luca Mammoli e Aleandro. Una volta diplomati abbiamo iniziato a lavorarci a ZAM, quando era ancora in Barona, poco prima dello sgombero. Una volta occupata la sede in Sant’Eustorgio, ho proposto di avere uno spazio prove e di lavoro là. L’idea era partire da un lavoro sulla morte, analizzando un gruppo di persone che sceglieva di suicidarsi perché stufi di sottostare alle regole del vivere sociale, schiacciati da una pressione troppo onerosa. Questo si assimilava bene con una sensazione personale di spaesamento nei confronti di qualcosa che non riusciva mai ad appagarmi del tutto, nonostante gli sforzi. Avevo 25 anni, era il 2012, l’avevo nel cassetto, l’ho condivisa: Dopodiché stasera mi butto ha qualcosa di ciascuno di noi, come fosse un figlio…
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Come nasce la drammaturgia di uno spettacolo come questo?Enrico: Anzitutto collettivamente. Avuta e accettata l’idea, ho chiesto a Graziano e Luca di scrivere dei testi per confrontarci. Coinvolsi anche Alessandra Scotti, un’amica drammaturga, e abbiamo deciso di iscriverci al concorso Scintille, all’interno del festival del teatro di Asti, che esamina e premia venti minuti di un progetto nuovo. Menzione speciale. In quell’occasione abbiamo coinvolto Riccardo, conosciuto lavorando insieme a Italian Factory, saggio di diploma di Chiara Boscaro, drammaturga della Grassi che chiese a Riccardo di curare la regia e a noi di recitare. Con noi anche Carlo Bassetti, che ha scritto la canzone finale dello spettacolo e forse conoscerete per La Buoncostume.
Riccardo: Ad ogni modo, la proposta drammaturgica di Alessandro ed Enrico è diventata condivisa e collettiva. Dopo un anno che si rimesta nel calderone si perde di vista lo scopo finale e ci si deve mettere a lavorare. Si è fatto e in due anni e mezza, ovviamente non interamente focalizzati su quello, ed è nata la creatura. Col secondo spettacolo abbiamo avuto tempi di produzione serrati come si faceva una volta. Scrivi, monti, vai in scena. Succede quando sei con un teatro, nella fattispecie con il teatro della tosse di Genova.
Com’è organizzato lo spettacolo? Seguite un canovaccio e cambiate ogni volta oppure il copione resta fisso e sapete esattamente quando “simulare” l’improvvisazione?Enrico: Non è uno spettacolo di regia, non è Ronconi, non è Latella. La regia risiede nella scrittura stessa. Essendo uno spettacolo diretto e frontale, richiama subito un’impostazione registica definita.
Riccardo: Si tratta di un’ora e un quarto di spettacolo incalzante e ritmato, che dà energia al pubblico. Un risultato del genere sarebbe impossibile con la totale improvvisazione. Le parti che possono apparire improvvisate sono studiate, previste, codificate. La scenografia è funzionale. Come dice Enrico, non si tratta di uno spettacolo di regia dove si vede l’io del regista, ma è il risultato una compresenza delle menti che lo hanno scritto. Le persone che vengono a vedere hanno l’impressione dell’improvvisazione, dovuta non tanto al fatto che essa sia presente, ma alla ricerca di un rapporto che si faccia flusso di pensiero concreto e poi azione. La gestione dell’imprevisto sta nel vederlo non come un errore, ma come un dono della vita.
Enrico: Ci interroghiamo continuamente su come aggiornare lo spettacolo. Avessimo più soldi e tempo… Addirittura volevamo che fosse davvero affidata al caso, fare un lancio reale di dadi, non più programmato. Il fatto è che bisognerebbe scrivere venti diversi copioni, per cui questa libertà ce la ritagliamo in momenti precisi. Siamo quasi alla novantesima replica. L’artifizio è per forza dichiarato, ad esempio quando smaccatamente riveliamo di giocare con dadi finti. In quel momento ci si prende gioco dello studio certosino che sempre si nasconde dietro l’improvvisazione.
Il dialogo con il pubblico è un valido metodo per ottenere un immediato riscontro?Riccardo: La bellezza del teatro fatto con il pubblico è impagabile. C’è continuamente la prova del nove, come per un comico che recita il suo monologo in un locale. Sai dove si potrebbe collocare l’applauso, il silenzio, la risata e dialoghi con gli spettatori seguendo un copione non scritto. La battuta d’inizio la dà il pubblico, sempre.
Enrico: C’è un momento specifico all’interno di Dopodichè stasera mi butto in cui sappiamo con certezza che la reazione sarà di silenzio teso, carico di aspettative. Dopo aver raggiunto l’apice del distacco, di incapacità di alcuni nel seguire questo cabaret nero, cinico, affilato, ecco da lì il pubblico o ci sta o si separa. Devo dire che ci è sempre andata bene. Rompi il ghiaccio e insieme ogni perbenismo. Quando sento le reazioni di chi mi dice, “avete giocato troppo pesante,” ecco, lì so di avere portato a casa il risultato.
Vi divertite?Enrico: Un sacco. Partendo davvero dal niente riusciamo a mantenere vivo e in movimento uno spettacolo come fossimo una compagnia di giro. L’abbiamo fatto all’Elfo, all’Atir e ora al Campo Teatrale. Quest’anno mi occupo io della distribuzione e promozione e parlo con svariate persone di enti, associazioni, teatri. A volte le convinco, altre volte no. Però il sold out per la prima di giovedì mi diverte molto.
Parliamo un attimo dell’altro vostro spettacolo, Karmafulminien-Figli di puttini. Smitizzare figure che nell’immaginario comune sono buone e perfette come gli angeli, cosa vuole comunicare?Riccardo: Anzitutto questo spettacolo parla di spiritualità, non di religione. Prendendo una figura come l’angelo, trasversale a livello religioso, presentiamo la nostra idea di moderna spiritualità facendo apparire questi angeli 3.0, imperfetti, l’ultima ruota dell’ultimo coro angelico, i più lontani da Dio. Sono figli di puttini. Voi vi aspettate fuoco ed eroi? Errore! Siamo angeli da petardi nel culo. L’angelo è lo specchio celeste di un’umanità ormai completamente despiritualizzata, che se la crede ma non ci crede. Non abbiamo un bersaglio preciso: presentiamo il finto fervente cattolico, così come il folgorato sulla via della sfiga che, all’ennesimo buco nell’acqua, decide di aver bisogno di un viaggio spirituale. L’elemento quasi magico della preghiera, volta più alla richiesta di una risoluzione immediata del problema, piuttosto che alla meditazione e alla ricerca, è il punto focale. Democraticamente colpisce tutti e ognuno può ridere di sé rivedendosi nello spettacolo.
Enrico: Mi è capitato che mi dicessero: quando mi parlavi del tuo spettacolo mi immaginavo chissà cosa, devo dire che mi aspettavo di più. Noi facciamo cabaret, non uno spettacolo di prosa che approfondisce il tema sviscerandolo con lunghi dialoghi e monologhi. Non è un’opera intellettualmente esaustiva, perché non risponde a nessuna domanda. La volontà è molto alta, il linguaggio è cabarettistico. Chi è abituato al grande teatro si aspetta che tutto venga sviscerato e si risolva con lo spettacolo. Con noi invece assistono a un cinico gioco al massacro su quel preciso argomento, e per alcuni tutto ciò è irritante, immorale. Quando questo succede sappiamo di aver vinto! Ti irrita o addirittura disgusta perché in quell’aberrazione ti riconosci? Vittoria. Nostra, certo. Ma anche un po’ vostra. Almeno fino al prossimo disagio.
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