Intraviste: Junot Díaz

Junot Díaz: autore di racconti per il New Yorker, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa e prima voce della diaspora dominicana in America ad arrivare al grande pubblico.

Intraviste: Junot Díaz

Junot Díaz: autore di racconti per il New Yorker, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa e prima voce della diaspora dominicana in America ad arrivare al grande pubblico.

Eccoci arrivati al secondo appuntamento con Intraviste — la rubrica che racconta le interviste che con i loro tic, le loro imperfezioni, hanno attirato il nostro sguardo.

Nella prima puntata abbiamo giocato facile, scegliendo una figura già presente nell’immaginario culturale italiano: il regista Paul Thomas Anderson. Il filtro applicato alla rubrica però non è né la visibilità (semmai l’invisibilità) né la fama, ma – se dovessimo usare un termine specifico – l’autenticità. Ecco dunque un autore estremamente lontano dai riflettori del nostro Paese: lo scrittore americano di origini dominicane Junot Díaz.

Prima di avventurarsi nell’indiscreta analisi dell’intravista, credo sia importante presentare il nostro ospite.

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Chi è Junot Díaz?

Junot nasce a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana, nel 1968 — 7 anni dopo la morte del dittatore Rafael Trujillo, il quale dominava il Paese dal 1930. A soli sei anni la sua famiglia – composta da altri quattro fratelli – emigra negli Stati Uniti, per l’esattezza a Parlin, New Jersey. Junot si dimostra subito un lettore vorace, con un interesse particolare per le opere di fiction e fantascienza. Durante il college si mantiene gli studi facendo piccoli lavori come il benzinaio e il cameriere. In un’intervista lo scrittore ha affermato:

“Posso tranquillamente dire che ho visto gli Stati Uniti dal basso verso l’alto … la mia può essere una storia di successo come individuo, ma se si regola la manopola e ci si sposta indietro per vedere l’unità familiare, direi che la mia famiglia racconta una storia molto più complicata. Racconta la storia di due bambini in carcere. Racconta la storia di enorme povertà, di enorme difficoltà.”

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Nel periodo universitario Junot Díaz crea il personaggio letterario Yunior, che lo accompagnerà in tutte le sue opere più famose — lo scrittore ha poi ammesso che “la sua idea era quella di scrivere sei o sette libri su di lui che creassero un unico grande romanzo”. Grazie alle sue pubblicazioni sul New Yorker, lo scrittore ottiene il successo di pubblico e negli anni diventa insegnante di scrittura creativa presso il Massachusetts Institute of Technology. Nel 2007 pubblica il suo primo romanzo The Brief Wondrous Life of Oscar Wao, l’anno dopo gli viene riconosciuto il Premio Pulitzer per la narrativa. Junot Díaz diventa così uno dei più influenti scrittori dell’America multietnica di Obama e primo scrittore di origini dominicane ad approdare al grande pubblico — dando per la prima volta una voce alla minoranza etnica che conta più di 1 milione di persone all’interno della popolazione americana.

Nel 2013 Junot Díaz è ospite al Chicago Humanities Festival, festival culturale della città che ogni anno sceglie una tematica differente intorno a cui costruire la propria narrativa. Il 2013 è l’anno della domanda “Che cosa ci rende umani?” e il concetto di amore – familiare, platonico, romantico – nelle sue opere sembra essere la risposta, oltre che il punto di partenza per la conversazione nell’intervista.

Ma come si intuisce dal titolo, Junot Díaz: Immigrants, Masculinity, Nerds, & Art, l’amore è solo un pretesto per parlare della contemporaneità.

AVVERTENZA—se siete intenzionati a vedere l’intervista, liberate la vostra agenda per la prossima ora e due minuti, perché il fascino caratteriale di Díaz vi conquisterà fin da subito.

Tra le tante interviste che si possono trovare su internet di Junot Díaz, questa è quella che meglio descrive la sua lucidità discorsiva — durante l’ora di conversazione infatti lo scrittore è in grado di arginare il latente razzismo (o quantomeno il white privilege dell’intervistatore), abbordare con calcolata comicità ogni domanda e mantenere un filo logico durante tutta la durata dell’intervista.

Il primo blocco del video appare come il più concentrato e più diretto, i due interlocutori affrontano la tematica che sta al centro delle opere dello scrittore e le riflessioni che esse sprigionano, quali l’immigrazione e la narrativa sempre più predominante della white supremacy. Attraverso l’esperienza dominicana, Díaz descrive l’America come un Paese incapace di accettare le minoranze a livello culturale oltre che sociale. “I’m very much interested in how we use local phenomena, or as an artist, how I will use local phenomena to access larger thing … I always use the same exemple … Melville ain’t just talking about wailers, you can’t read Moby Dick and say ‘oh he really didn’t like wailers’, it’s just a metaphor and for me is usefull because I’m interested in the dominican community, I’m interested in my diaspora” (Mi interessa molto come utilizziamo i fenomeni locali, o meglio come artista, come posso usare i fenomeni locali per accedere a situazioni più ampie … uso sempre la stessa metafora … Melville non sta parlando solo di balenieri, non puoi leggere Moby Dick e dire ‘non gli dovevano proprio piacere i balenieri’, è solo una metafora e per me è utile perché io sono interessato nella comunità dominicana, io sono interessato alla mia diaspora).

Prevedibile dunque il contrasto che si pone in termini di narrativa razziale.

“Think about if white people shut the fuck up for one day!”

E gli ostacoli che invece la narrativa delle minoranze deve superare prima di essere apprezzata al pari di altre forme privilegiate.

“White white white … white white white”

La conversazione continua approfondendo l’esperienza di Junot Díaz all’interno del proprio contesto familiare e in un ambiente come quello del New Jersey anni Ottanta, tra mascolinità forzata e letture nerd.

È a tre quarti del video che però l’approccio viene completamente ribaltato. L’intervistatore lascia le domande al pubblico e Diaz, che fino ad allora sembrava gentilmente costretto all’interno del percorso costruito dal suo interlocutore, finalmente dimostra la sua natura di insegnante (oltre che di scrittore) per instaurare un rapporto di fiducia con il pubblico.

È proprio in quest’ultimo passaggio, dalla chimica che si sviluppa con il pubblico, che emergono le risposte alla domanda del festival “Cosa ci rende umani?”.

“Guys please, serve your applause for your fucked-up politicians”

Soprattutto all’alba della presidenza Trump, un intervento così radicale come quello di Junot Díaz sul futuro di una Nazione, sull’importanza dell’educazione e sulle contraddizioni di una società anti-intellettuale, è un passaggio obbligato per comprendere meglio i quattro anni a venire.