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Benvenuti in un nuovo episodio di Arabeschi.
Nell’articolo di oggi tratteremo un concetto fondamentale del pensiero islamico, che insieme alla Sunna e al Corano vanno a costituire le fonti principali del pensiero giuridico islamico, ovvero الإجماع al-ijmā’, termine con cui si intende “il consenso della comunità dei credenti.”
Il diritto islamico che, come vedremo, è di ispirazione religiosa, deriva dal lungo processo di codificazione delle fonti del Corano e della Sunna, che ebbe luogo tra l’VIII e il IX secolo. Tale processo fornì dei codici che in moltissimi casi non potevano essere applicati direttamente e, per questo motivo, la società islamica, che si trovava ancora in una fase di trasformazione, si affidò al lavoro svolto da coloro che cercavano di interpretare le norme non del tutto chiare contenute nelle fonti, per renderle pragmatiche e funzionali alle questioni e alle circostanze non contemplate non solo nel Testo Sacro ma neanche tra gli insegnamenti del Profeta; questo tipo di interpretazioni a partire dalle fonti contribuì a codificare la cosiddetta “pratica della comunità musulmana”, che ovviamente diventa la concretizzazione della terza più importante fonte del diritto musulmano: “il consenso della comunità dei credenti”, ovvero الإجماع ijmā’.
Anche in questo caso, l’istituto della ijmā’ ha origini pre-islamiche tipiche della società araba antica, la quale essendo prevalentemente priva di norme scritte e basandosi, invece, sull’oralità, usava legittimare certe usanze o comportamenti semplicemente in seguito al fatto che questi, in tacito accordo, divenissero consuetudine della comunità.
Abbiamo già visto l’importanza del fondamento della Umma alla base della società islamica, in quanto criterio di appartenenza ad una stessa comunità sulla base di una comune adesione alla stessa fede, piuttosto che agli stessi legami di sangue che costituivano le comunità arabe preislamiche ma, in entrambi i casi, alla base di queste comunità si trovavano caratteri solidaristici. Nel Corano, per di più, viene prescritto come un dovere di ogni musulmano quello di salvaguardare l’unità dei credenti e nell’iconografia politica spesso si è fatto riferimento al detto del Profeta che paragona la comunità islamica ad un’unica mano anche se composta dalle singole dita, che rappresentano i singoli individui musulmani.
La ijmā’ verrà, col tempo, sempre più utilizzata come criterio per raggiungere la verità, che si esplicitava attraverso l’approvazione di norme da parte dei giurisperiti, la non disapprovazione di pratiche seguite o della consuetudine verso altre pratiche da parte della comunità.
Ma, man mano che le dimensioni dell’impero islamico crescevano, la ijmā’ dovette assumere delle caratteristiche un po’ più specifiche, per cui, per tutto quello che riguardava le pratiche di culto quotidiane, si ricercava un vero e proprio consenso dell’intera Umma, in quanto si aveva a che fare con precetti fondamentali per tutti i membri della comunità islamica, indipendentemente dalla loro provenienza. Per la codificazione di norme riguardanti, invece, aspetti più specifici e particolari della vita di ciascuno, si faceva ricorso all’unanime accordo tra coloro ai quali era riconosciuto un alto grado di conoscenza delle fonti: i dotti e gli studiosi delle scienze islamiche avevano l’autorità per esprimere il loro parere e giungere ad un unanime consenso, anche se di dimensioni più ristrette rispetto a quello richiesto per le pratiche quotidiane del culto ma, in ogni caso, rappresentando il consenso dell’élite colta della comunità, aveva allo stesso modo un alto valore normativo.