Se oggi possiamo ancora ammirare il secondo monumento più famoso di Milano lo dobbiamo all’architetto Luca Beltrami.
Nel 1894, l’architetto Luca Beltrami scriveva: «oggi, a molti potrà sembrare strano che sia stata, pochi anni or sono, ideata la completa distruzione del Castello di Milano, all’unico scopo di lasciare libero campo allo sviluppo della privata costruzione: sembrerà pure strano che si sia potuto lungamente meditare, proporre e sostenere la mutilazione dell’edificio, mettendo innanzi un progetto di restauro che, trascurando l’evidenza dei fatti e svisando il significato dei documenti, cercava di dare all’opera della speculazione una parvenza di rispetto all’arte ed alla storia»
Dodici anni prima, nel 1882, era iniziata la demolizione del Lazzaretto di Milano, un colonnato quattrocentesco che delimitava una vasta area quadrangolare di 14 ettari — per intenderci oggi compresa tra viale Vittorio Veneto, via Lazzaretto, via San Gregorio e corso Buenos Aires. Al posto del vetusto edificio sarebbe stato costruito un nuovo quartiere popolare; a nulla erano valse le proteste di molti amici delle arti e nemici della speculazione, tra i quali troviamo in prima linea Alessandro Manzoni (che il Lazzaretto l’aveva immortalato ne I promessi sposi) e il nostro Beltrami.
Luca Beltrami si era diplomato in architettura civile a Milano nel 1875. Cinque anni più tardi, dopo un periodo passato a Parigi, ottenne la cattedra di architettura e geometria descrittiva all’Accademia di Brera, e nel 1885 di architettura pratica. A partire dal 1886 restaurò e completò la facciata di Palazzo Marino sulla nuova piazza della Scala, aperta abbattendo gli edifici che si trovavano tra il palazzo e il teatro. Suo è anche il palazzo della Banca Commerciale Italiana sempre in piazza della Scala. Altri edifici progettati dal Beltrami a Milano sono la Sinagoga centrale e il palazzo del Corriere della Sera. Tuttavia, l’opera probabilmente più importante della sua carriera risale al principio del 1884, quando iniziò la campagna per la conservazione del Castello sforzesco, condannato ad essere demolito per far largo ad un grandioso viale alla francese, che avrebbe collegato il Duomo all’Arco della Pace.
Non solo speculazioni, dietro al progetto di demolizione del Castello sforzesco c’erano anche serie ragioni politiche ed estetiche. Innanzitutto, per poter comprendere la volontà di distruggere quello che, dopo il Duomo, è il monumento più famoso del capoluogo lombardo, bisogna immaginarsi un Castello molto diverso. Infatti, non esisteva la Torre del Filarete (l’originale era esplosa con una polveriera nel 1521) e le torri cilindriche in bugnato, che oggi la fiancheggiano, erano state ribassate: l’edificio era sostanzialmente una fortezza tozza, sgraziata e annerita dal tempo. Insomma, il Castello non veniva percepito dai milanesi come un edificio dal valore storico e artistico, ma piuttosto come una tetra “casermona”, che rappresentava per Milano una «mostruosa e infame memoria». Infatti, il Castello era da sempre una fortezza più rivolta contro la città e i suoi abitanti che in difesa di questi (come nota acutamente Machiavelli, Principe, XX), che dalla caduta degli Sforza in poi era stata usata dai vari invasori stranieri per mantenere l’ordine e reprimere le insurrezioni. Così, nel 1848 dalle mura del Castello spararono i cannoni del maresciallo Radetzky, nel vano tentativo di sedare la rivolta del popolo milanese (passata alla storia come le Cinque Giornate) e nel 1853 nelle prigioni della fortezza vennero rinchiusi i patrioti Mazziniani, i “Martiri di Belfiore”.
Fronte del Castello verso la città, secondo Luca Beltrami, da Luca Beltrami, Il Castello di Milano sotto il domionio degli Sforza dei Visconti (Milano: Ulrico Hoepli, 1894).
Non sorprende quindi che Cesare Correnti, eroe delle Cinque Giornate e Senatore del Regno d’Italia, suggerisse in Consiglio Comunale la demolizione totale del Castello descrivendolo come «una massa malinconicamente tetra, stupidamente vasta, cocciutamente uniforme; che ha un merito solo: quello di far desiderare la primavera che vi fa crescere intorno le foglie».
Il Piano regolatore per i nuovi quartieri del Foro Bonaparte e della Piazza d’Armi (area oggi occupata dal Parco Sempione) proponeva un compromesso: una demolizione solo parziale del monumento. Come per l’area occupata dal Lazzaretto, era stata progettata la costruzione di “quartieri modello”, questa volta però non popolari ma bensì signorili. Esigendo la distruzione di una buona parte del Castello, il piano spingeva la costruzione di lussuose case a cinque piani (come quelle attualmente in Foro Bonaparte) al di là dell’area occupata dalla facciata e dalle due torri cilindriche della fortezza. Inoltre, per le parti dell’edificio risparmiate, venivano proposti restauri artificiosi (vedasi quello proposto dall’architetto Colla). Questi, ben diversi da quelli “filologici” che avrebbe eseguito poi il Beltrami, avrebbero ricompattato con aggiunte fantastiche quanto rimaneva del monumento e dato al tutto una forma pseudo-medievale.
Nel gennaio del 1884, quando era ormai imminente la presentazione al Consiglio Comunale del piano regolatore, il Beltrami propose «un rilievo esatto del Castello, e di un rapporto particolareggiato sulla importanza delle varie sue parti, e sulle difficoltà che si incontrerebbero all’atto pratico di un restauro». Nella battaglia l’architetto (accusato di «culto cieco e feticismo per tutto ciò che è vecchio» e di «bigottismo archeologico») non si trovò però solo: infatti, presto si unì la Società Storica Lombarda per affermare insieme «i diritti della storia e dell’arte su questo edificio». Quando anche la Commissione Conservatrice dei Monumenti si affrettava a far sentire nello stesso senso la propria voce ed influenza, il Governo sospese qualsiasi decisione che avesse a compromettere l’integrità del monumento.
Grazie alla sua competenza di cultore delle arti e delle antiche memorie, al Beltrami venne commissionata dal Ministero della Pubblica Istruzione uno studio completo del Castello: lavoro grafico di rilievo e restauro di tutto l’edificio sforzesco, al quale l’architetto affiancò ricerche storiche relative alla costruzione e alle vicende del monumento. Questo lavoro bastò a mettere in rilievo l’importanza storica e artistica del monumento, e a giustificare l’ardore e la tenacia spese del Beltrami per la sua conservazione; il progetto di demolizione venne quindi definitivamente accantonato. Infine, nel 1893, iniziarono i restauri del Castello, che il Comune affidò al Beltrami, al fine di riportare il monumento alle linee antiche e ad adibirlo a istituzioni culturali. Nel 1896, vennero raccolte nel Castello le raccolte di opere d’arte del Comune, mentre nove anni più tardi veniva ultimata la ricostruzione della Torre del Filarete.
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