Nuovi processi di pace? Israele al centro degli ultimi giorni di Obama
Obama si prepara a lasciare la Casa Bianca a Donald Trump intervenendo sulla questione israeliana.
Obama si prepara a lasciare la Casa Bianca a Donald Trump intervenendo sulla questione israeliana.
Cool water, after shave e linea cosmetica
on line e nei flagship store Erbaflor
[button color=”white” size=”normal” alignment=”none” rel=”follow” openin=”samewindow” url=”http://www.erbaflor.com/it/tobacco-road”]Scopri di più[/button]
24 dicembre 2016. Erano tensioni di cui si sapeva da molto tempo, e la decisione stessa era nell’aria, ma il mancato veto degli Stati Uniti alla risoluzione che condanna la politica degli insediamenti nella West Bank è stata comunque una bomba sulle relazioni tra Israele e gli USA di Obama.
Di Obama è la chiave del discorso, qui, perché la destra iperconservatrice, razzista e misogina israeliana ripone tanta fiducia in una più stretta alleanza con la Casa Bianca ipercoservatrice, razzista e misogina di Trump. (In effetti qualcosa hanno in comune)
Senza conoscere sosta, nei giorni successivi una vera e propria escalation di commenti e frecciate tirate attraverso i propri media affiliati, ha reso chiaro che sta succedendo qualcosa tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama — che è davvero alle ultime cartucce, in vista dell’insediamento di Trump il 20 gennaio.
E dato il poco tempo rimasto ad Obama, la diplomazia israeliana sembra assolutamente intenzionata a tagliare la testa al toro: non rispetterà la risoluzione 2334, e ha, a detta dell’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Ron Dermer “interrotto ogni contatto con la Casa Bianca.” Almeno fino al 20 gennaio.
Un passo (di cinquant’anni) indietro
La risoluzione ONU che gli Stati Uniti non hanno bloccato riguarda territori che Israele ha occupato durante la guerra del 1967. All’epoca — come oggi, in realtà, ma paradossalmente i rapporti tra Israele e i paesi musulmani confinanti non potrebbero essere migliori, in questo momento — Israele era circondata da paesi profondamente ostili all’idea stessa di uno stato ebraico. Israele lanciò un violentissimo attacco preventivo verso i territori musulmani circostanti, dove, si diceva, l’Egitto stesse radunando forze e armi per un’imminente invasione “araba.”
È impossibile non vedere i primi attacchi, guidati da Levi Eshkol approfittando delle crescenti provocazioni di Nasser, come una mossa giustificata seppur disperata, mentre la crisi economica in Israele cresceva, insieme alle pressioni interne, per lanciare una vera e propria guerra. Eshkol, prima direttamente alla guida dell’esercito, poi affiancato da Moshe Dayan, usò la forza con grande parsimonia.
Ciononostante, le annessioni durante la guerra di quell’anno non furono mai riconosciute dall’ONU — che si sarebbe poi espresso, allo stesso modo, a riguardo nel 1980. E a prescindere da tutto ciò, la quarta Convenzione di Ginevra dichiara illegale l’uso civile e la costruzione su territori annessi durante operazioni di guerra.
È vero e innegabile che i territori interessati dalla risoluzione 2334 siano illegali secondo norme internazionali; ma è altrettanto vero e innegabile che siano abitati, edificati, vissuti. Non sono (solo) avamposti militari, sono quartieri abitati, seppur spesso da estremisti e fronde dell’estrema destra. È un’espansione rapida che è continuata in questi anni, trasformando territori occupati in zone sostanzialmente residenziali, nel tentativo di cementare, o cementificare, la normalità degli avamposti. La reazione alla risoluzione è stata esattamente la stessa di questi ultimi anni: più case, più palazzine. Solo all’ultimo minuto oggi Israele ha annunciato la sospensione del nuovo piano di costruzione, in attesa di un nuovo intervento di Kerry.
Ma perché Obama ha deciso di spendersi ora su questo fronte, di un conflitto che sembra interminabile, a poche settimane dalla fine della propria presidenza? Cos’è cambiato?
Cos’ha in programma Trump per Israele
Nel teatrino orrificante di magnati, corrotti e impreparati che il presidente-eletto degli Stati Uniti sta assemblando da settimane, spicca come scelta particolarmente infelice — e chiunque segua la politica statunitense, o il nostro Hello, World!, sa quanto sia difficile — David Friedman, ambasciatore-designato in Israele.
Friedman rappresenterà un totale riallineamento per gli Stati Uniti, ben al di là dell’intento di essere super partes. L’obiettivo di Friedman, insieme alla Zionist Organization of America, è quella di spingere verso una soluzione di stato unico — Israele — per il conflitto israelo-palestinese. Si tratterebbe a tutti gli effetti di uno stato di apartheid, un rischio che l’amministrazione Obama ha più volte analizzato, in cui un’amministrazione monocolore riconoscerebbe diritti civili a una popolazione, e all’altra no, e certamente non lo stato “binazionale” che tanti liberal teorizzano.
Friedman, avvocato specializzato in casi di bancarotta che ha più volte aiutato Trump nei suoi affari, è braccio destro di un altro suo importante emissario presso l’estrema destra israeliana, il genero Jared Kushner, e, soprattutto, una figura chiave nella conservazione e espansione dei territori occupati da Israele: solo lo scorso anno ha raccolto 2 milioni di dollari per la cura di uno stanziamento legato all’estrema destra israeliana nella West Bank.
Friedman è tra i molti commentatori che sostiene che Israele potrebbe annettere senza problemi l’intera West Bank, sostenendo che i 3 milioni di “arabi” che risiedono nella zona non costituirebbero nessun problema amministrativo e rimarrebbero comunque una minoranza (6 milioni e mezzo ebrei israeliani contro i 4 milioni e 700 mila palestinesi). La matematica di Friedman e dei suoi è però molto creativa: non solo non conta il più di un milione e mezzo di palestinesi che vivono tra le macerie a Gaza, ma si rifiutano categoricamente di conteggiare i 4 milioni di persone che vivono nei campi profughi della regione.
Rifiutarsi di contare persone come persone è un punto di partenza molto difficile, quando si vogliono scansare accuse di voler costruire uno stato d’apartheid.
Anche se molti falchetti sotto l’ala di Netanyahu festeggiano per la designazione di Friedman, alla maggior parte dei commentatori sfugge come la sua nomina costituisca la minaccia più grande ad Israele degli ultimi anni.
Per quanto in questi anni il mondo abbia osservato un lento, inesorabile e a volte apparentemente inarrestabile slittamento di Israele verso destra, nessuno dei leader della destra parlamentare israeliana si sognerebbe mai di proporre una soluzione diversa al conflitto se non quella dei Due stati: certamente quello che verrebbe riconosciuto come stato palestinese si fa sempre più piccolo, e il confine ormai da anni viene disegnato con aggressioni sanguinose, piuttosto che attraverso la politica, ma nessuno parla di una soluzione che preveda il completo dominio di Israele.
Nominando Friedman ambasciatore, Trump ha lanciato un segnale forte e chiaro all’estrema destra israeliana: è il momento di mobilitarsi. Per Netanyahu, la scelta sarà presto tra farsi trascinare verso posizioni ancora più oltranziste, o combattere contro gli stessi strenui difensori di Israele che ha finora considerato propri alleati.
L’amministrazione Obama, nei suoi ultimi giorni, si trova così costretta ad agire — non per spirito anti-israeliano, ma nel tentativo di svolgere, per un’ultima volta, un ruolo di arbitrato. È la stessa amministrazione che ha firmato un accordo da 38 miliardi di dollari, su 10 anni, per la difesa del Paese, chiedendo solo un investimento di 500 milioni annui in difesa missilistica — non esattamente un nemico dei Israele.
In un contesto in cui tutti i governi dei Paesi storicamente nemici di Israele sono impegnati su fronti d’emergenza molto più viva — la Fratellanza Musulmana, lo Stato Islamico, l’Iran — l’estrema destra che Donald Trump porterà in voga in Israele è la più grande minaccia alla democrazia del Paese.
Nel frattempo, la vittoria per i palestinesi resta completamente simbolica: la risoluzione ONU agita la catena statunitense di Netanyahu, che ha comunque i mezzi economici, compresi i 3,3 miliardi annui dagli Stati Uniti, per continuare le proprie politiche aggressive, e dall’altra parte comunica ai palestinesi come l’unica via per una pace, per qualsiasi pace, dovrà passare per gli Stati Uniti. Quello di Obama è un tentativo, all’ultimo secondo, per mettere in moto un nuovo processo di pace — che, con una diversa leadership a Washington, avrebbe anche potuto avere qualche speranza.