25 dischi che ci sono piaciuti nel 2016
Rigorosamente e democraticamente organizzati in ordine di uscita.
Rigorosamente e democraticamente organizzati in ordine di uscita.
David Bowie — Blackstar
David Bowie ha aperto l’annus horribilis musicale con la propria morte e parlando di morte in quello che è a tutti gli effetti il suo testamento artistico, un disco cupo, da necronomicon, suonato con violenza elegante dal quartetto di Donny McCaslin.
Lucy Dacus — No Burden
No Burden inizia con una dichiarazione semplice: I don’t wanna be funny anymore. L’esordio di Lucy Dacus esprime così, senza asprezza — anzi, con il calore di un indie rock morbido e malinconico, a tratti bluesy — la fatica e la stanchezza delle pressioni sociali.
Bruno Belissimo — Bruno Belissimo
Bruno Belissimo è la via italo-canadese alla disco-funk contemporanea: loop senza pietà, giri di basso ipnotici, frammenti cinematografici, e via all’infinito.
Motta — La fine dei vent’anni
Il primo album di Francesco Motta parla di un tempo che scorre inesorabilmente instabile, alla ricerca di un nuovo equilibrio, ritrovato, poi perso, trovato di nuovo. E poi c’è Roma, musa ispiratrice di ogni traccia.
VAPERROR — Acid Arcadia
VAPERROR è la nuova sfida di Jeff Cardinal, che passa dalla propria EDM futuristica, dal ritmo sincopato a della lounge acida, surreale — ma assolutamente non futuristica, anzi spesso quasi retro, come nel suoni robotici e da videogioco di “Crystal Body.”
Jolly Mare — Mechanics
Rivelazione dell’elettronica italiana, il salentino Jolly Mare escordisce con un trip poliritmico da cyberspazio vintage, molto indebitato con gli anni ‘80. Tra synth e drum machine spicca Hotel Riviera, pezzo pop dell’anno.
Suuns — Hold/Still
Forse non regge il confronto con Images du Futur, ma conferma la maturità dei Suuns e la loro passione per: i bassi synth quasi inudibili; le scale mediorientali; i ritmi ipnotici; il cantato tra i denti; una cupezza quasi drone.
Brian Eno — The Ship
In questo disco più che mai, Brian Eno veste i panni di una specie di sacerdote cosmico — la musica arriva da profondità siderali, e serve a trasportare i fedeli in una dimensione ultraterrena. A sorpresa: una cover di I’m Set Free dei Velvet Underground scioglie la tensione.
Kaytranada — 99.9%
Il produttore haitiano-canadese enfant prodige Kaytranada stabilisce con 99.9% il nuovo standard per quel blend di soul, R&B, hip hop e funk tornato di moda negli ultimi anni — vedi alla voce Anderson .Paak (che qui collabora) e Chance The Rapper, altri due protagonisti assoluti del genere nel 2016.
Jessy Lanza – Oh no
Oh no al primo ascolto è strano strano — è energico, non energetico, stizzito, non arrabbiato. È un disco pop introverso, per non–più–adolescenti, che parte con una giustificazione — la tristezza. Non è una cronaca vittimista della propria depressione, ma un canto di forza: per riconoscere la tristezza come un tipo di forza, l’unico sentimento che permette di accettare contraddizioni, e la complessità della vita adulta.
Oscar — Cut and Paste
Mentre l’indie britannico è spaccato tra la deriva completamente commerciale e lo sperimentalismo, dalla crepa nel suolo è sbocciato Oscar. Cut and Paste, il suo disco d’esordio non è speciale, ma è onesto; non è innovativo, ma non è nemmeno confezionato. E come tutti i giovani intelligenti, è spaventato.
Car Seat Headrest — Teens of Denial
Quota adolescenza: Will Toledo dimostra che nel 2016 si può ancora fare indie rock con l’anima, e parlare di depressione e dipendenza con disinvoltura rabbiosa senza banalità.
Bat for Lashes — The Bride
The Bride, seppur certamente non il miglior disco di Natasha Khan — che era più a proprio agio quando faceva folk che nei suoi più recenti pastiche elettronici, che sono comunque più interessanti — torna con un concept album che sfonda le barriere tra musica, radiodramma, ed esperienza teatrale. The Bride canta la separazione non come fine di un amore, ma come nascita di un amore eterno, quasi mistico e certamente drammatico. No spoiler, prendetevi un’ora e mezza — vi serviranno fazzoletti e una mezz’ora in più per rimettervi insieme, ad ascolto terminato.
Wild Beasts — Boy King
Boy King è un disco drammatico — quinto disco dell’esperimento di iper-sessualizzazione dell’indie rock del quartetto di Kendal, è anche il primo esperimento fallito. Ma in un genere che ha sempre meno da dire, un esperimento fallito è dieci volte più interessante di tanti dischi ben confezionati che nessuno dovrebbe ascoltare. E con tutti i suoi difetti, Boy King è da ascoltare.
La Femme — Mystère
Qui c’è un po’ di tutto: psichedelia, surf rock, garage, elettronica, chanson, dream pop, krautrock, brani giusti per Quentin Tarantino e brani giusti per Wes Anderson.
Wilco — Schmilco
La cover art surreale di Joan Cornellà riassume bene il senso del non-senso di tutta l’esistenza, la nostalgia dell’infanzia, la fatica di crescere, tirare su col naso dopo aver pianto — tradotto in 12 brani folk-rock sommessi e consolatori.
Mykki Blanco — Mykki
Fluido come il proprio genere, l’esordio studio rap/afropunk di Michael David Quattlebaum Jr., in arte Mykki Blanco, si pone in opposizione diametrica con il rap aggressivamente maschilista e spesso misogino della scena contemporaneo. Mykki Blanco, feroce commentatrice politica, porta la sieropositività, la questione di genere e il dilagante razzismo al centro dei propri testi, in quello che è senza dubbio il disco hip-hop dell’anno.
Bon Iver — 22, A Million
Dopo 5 anni di duro lavoro è arrivato l’ultimo sorprendente album dei Bon Iver. Dai caratteri fortemente sperimentali, 22, A Million dà l’impressione di nascere da una voglia di uscire dagli schemi, di cambiare la percezione stessa della musica. Il falsetto leggero di Justin Vernon ha qualcosa di angelico ed etereo, eco di una malinconia scomposta e irregolare.
S U R V I V E — RR7349
Usciti allo scoperto grazie alla colonna sonora di Stranger Things, i S U R V I V E in realtà sono all’opera da sette anni, e sono molto più in the weeds della propria produzione per Netflix. Strumentale, non dance, d’ambiente ma non ambient, dove la colonna sonora di Stranger Things riporta negli anni Ottanta, RR7349 sfida il lettore a immaginare il futuro — e non è un bel posto.
藤本ちゃお – 楽しい分裂症feels
Chao Fujimoto ha 19 anni, vive a Tokyo ed è una delle più belle scoperte dell’anno. Fujimoto è la migliore introduzione che potete sperare al poemcore — un genere praticamente locale alla capitale giapponese in cui si recitano haiku su EDM e musica da videogiochi. Non è su Spotify, ma trovate i suoi dischi su Bandcamp: gli EP sono name your price, iniziate da lì.
French Horn Rebellion — Classically Trained
Robert e David Perlick–Molinari sono fratelli e in arte si fanno chiamare French Horn Rebellion — perché Robert quello suona, il corno. Ma cosa può fare un musicista che suona il corno negli anni Dieci, se non si trova a casa in un’orchestra? Mettere insieme un duo dance funk cattivo cattivo. In Classically Trained ci sono meno corni che nel loro primo LP dell’anno scorso, ma la ribellione continua.
Saint Motel — saintmotelevision
Ci sono corni, tanti corni, nel nuovo LP dei Saint Motel. saintmoteltelevision è in qualche modo un punto d’arrivo, per un gruppo che era partito generico quanto si poteva essere generici a fare indie pop nel 2009 — vale a dire: moltissimo — ed è arrivato, dopo la svolta di My Tape, verso un indie prog ballerino che fa fatica a stare insieme ma ascoltateli e poi fateci sapere.
Kero Kero Bonito — Bonito Generation
Dopo anni di singoli e cazzeggio il trio di j-pop londinese più affetto da ADHD del mondo è riuscito a essere sul pezzo per abbastanza tempo per mettere insieme un disco. Ne è valsa la pena: Bonito Generation è in parti uguali pop-house e manifesto politico, mentre cerca di raccontare una generazione più triste delle ultime decadi, senza lavoro, senza prospettive, nel mondo più allegro e fluorescente di sempre.
Romare — Love Songs Pt. 2
Lo studio della musica nera da parte del mago del sampling Romare raggiunge in questo disco una sorta di distillato essenziale, in qualche punto a metà strada fra l’elettronica e l’afrobeat. È voodoo da Boiler Room.
Childish Gambino — “Awaken, My Love!”
Decisamente più anni ‘70 la svolta di Childish Gambino, che abbandona il rap per costruire, essenzialmente, un omaggio epico e monumentale alla musica di Parliament-Funkadelic e Sly & the Family Stone. Menzione speciale per la cover art.