Cosa resta delle Primavere Arabe
Scoppiata esattamente sei anni fa, la rivoluzione tunisina è l’unica ad aver avuto un esito pacifico e democratico. Ma perché le Primavere Arabe hanno fallito?
Scoppiata esattamente sei anni fa, la rivoluzione tunisina è l’unica ad aver avuto un esito pacifico e democratico. Ma perché le Primavere Arabe hanno fallito?
La Salvia è una pianta magica: il suo nome vuol dire salvatrice.
La nuova linea profumata Erbaflor
[button color=”white” size=”normal” alignment=”none” rel=”follow” openin=”samewindow” url=”http://www.erbaflor.com/it/disalvia”]Scopri di più[/button]
Il 17 dicembre 2010, esattamente sei anni fa, il cittadino tunisino Muhammad Bouazizi si diede fuoco in risposta a ciò che considerava un’umiliazione pubblica e una profanazione della propria dignità: era stato schiaffeggiato e insultato da un funzionario municipale. 18 giorni dopo Bouazizi morì in ospedale. Questo evento innescò una reazione a catena di proteste di piazza portate avanti da centinaia di manifestanti infuriati nella città di Sidi Bouzid. Le manifestazioni si propagarono velocemente per il Paese, compresa la capitale, Tunisi.
La Tunisia non era un caso isolato nel mondo arabo di allora: è stata soltanto la miccia che ha innescato la volontà di molti altri Paesi Arabi di essere parte di un vecchio sogno comune — il sogno del cambiamento. O semplicemente, il fenomeno che adesso è conosciuto come Primavera Araba. Il vento di cambiamento ha colpito Egitto, Libia, Yemen, Bahrain… Ma sembra che la Tunisia sia l’unico Paese ad averlo cavalcato con successo.
Le ragioni della Primavere Arabe possono essere divise in un gran numero di fattori economici e politici che sono più o meno gli stessi dappertutto, ma la cui importanza varia da Paese a Paese. Apparentemente il fattore economico è stato cruciale nelle situazioni di Tunisia, Libia, Egitto e Yemen, mentre il fattore politico è stato più rilevante in Siria e Bahrain. Tuttavia, va sottolineato che ciò non implica una mancanza di interesse per la democrazia nel popolo egiziano, o che tutti i siriani godessero di un elevato tenore di vita. È solo una questione relativa.
Parlando in generale, gli alti tassi di povertà e disoccupazione, soprattutto tra i giovani, hanno giocato un ruolo primario nello spingere i popoli arabi a cercare di cambiare i regimi politici di allora, dopo decenni in cui il loro dominio era stato accompagnato da un costante fallimento nell’economia e nel mantenimento delle promesse di sviluppo. Anche l’enorme divario tra ricchi e poveri — lampante in Stati come Egitto e Tunisia, e sempre più profondo ad esempio in Siria — è stato una forte motivazione per gli insorti, soprattutto per chi non veniva dalle grandi città.
La povertà, la disoccupazione, il divario tra le classi sociali sono stati causati dalle politiche neoliberiste adottate dai governi che si sono succeduti in tre dei Paesi di cui parlavamo sopra — Siria, Egitto e Tunisia — impoverendo migliaia di persone per giovare a pochissimi grandi uomini d’affari, che avevano instaurato salde alleanze con le autorità, soprattutto all’interno delle istituzioni militari. Mentre in Paesi come la Libia o lo Yemen l’ignoranza, l’irresponsabilità e la paranoia che caratterizzavano le personalità dei Presidenti Gheddafi e Ali Slih erano ragioni sufficienti a peggiorare a livello economico le vite dei libici e degli yemeniti.
Tuttavia, il punto di sovrapposizione tra le ragioni economiche e quelle politiche è stata la corruzione.
Combatterla è stata tra le istanze portate avanti con più fermezza dai dimostranti, esausti di perdere opportunità e risorse nel corso degli anni e scontenti dell’illimitato abuso di potere da parte delle autorità.
La mancanza di libertà pubbliche, diritti umani, trasparenza, informazione libera e possibilità di esprimere critiche o di dare un contributo alle decisioni riguardo alla collettività, unita ovviamente alla situazione insostenibile di migliaia di prigionieri politici e sparizioni forzate (e nel caso del Bahrain anche una discriminazione settaria) sono tutti fattori politici — correlati direttamente o indirettamente con la dignità umana — che hanno aiutato a modellare la forma delle Primavere Arabe.
Eccetto che in Tunisia, tutte le sollevazioni della Primavera Araba sono fallite, sfociando in guerre civili o finendo per riprodurre dittature attraverso sistemi apparentemente democratici. Perché sono fallite e perché la Tunisia ce l’ha fatta?
Ci sono ragioni interne ed esterne che, insieme, spiegano il fallimento. Ma prima, occorre mettere in luce l’esperienza della Tunisia, la cui storia esemplare ha reso il Paese un faro di cambiamento democratico pacifico in un deserto di disordini armati e sanguinari.
Nei giorni di Ben Ali — il presidente rovesciato — il Paese aveva goduto di stretti margini di libertà che hanno provveduto a creare un ambiente adeguato a una società civile e a partiti politici organizzati. Quando la rivoluzione è iniziata, era già presente un’opposizione politica organizzata e figure di rilevanza pubblica come Shukri Boulid e Muhamad Al Brahmi, entrambi assassinati successivamente. In aggiunta a questo, va tenuto conto di una vecchia e forte istituzione economica e sociale come il Sindacato Generale Tunisino, che ha giocato un ruolo sostanziale nel creare un dialogo tra i differenti poteri dopo la rivoluzione, che alla fine hanno portato a un governo di larga coalizione e a una costituzione.
Non si può nemmeno ignorare il fatto che l’esercito avesse un’autorità più debole nella vita politica rispetto ad altri Stati arabi, oltre al pragmatismo che ha caratterizzato gli islamisti tunisini, soprattutto i Fratelli Musulmani, che hanno dato l’impressione di aver compreso la lezione dell’Egitto, e dunque sono sembrati più liberali che conservatori.
Tornando invece alle ragioni del fallimento delle Primavere Arabe, può essere spiegato per prima cosa con la maggioranza silenziosa di quelli che sono chiamati “cittadini stabili”, che si sono rifiutati di partecipare alle sollevazioni perché terrorizzati o perché non intendevano pagare il prezzo del cambiamento — che può essere alto, paragonato alla relativa stabilità tenuta in piedi dai vecchi regimi.
In secondo luogo, la brutalità e la ferocia della repressione delle proteste ha finito per ingrossare la maggioranza silenziosa, e allo stesso tempo ha spinto i ribelli a trasformarsi in rivoluzionari armati. Le dispute armate, per loro natura, attraggono gli estremisti e mettono da parte i moderati. Progressivamente, e sotto la pressione dei jihadisti, le rivoluzioni sono scivolate in guerre civili con motivazioni settarie o tribali. Questo ha aiutato i regimi a instaurare uno stato di ricatto, che ha posto la gente davanti a due scelte: o noi, o il terrorismo e il caos.
Terzo, la mancanza di supporto dalla comunità internazionale e l’interferenza irresponsabile e senza scrupoli in Libia guidata dagli Stati occidentali ha raddoppiato le paure delle maggioranze in altri Paesi arabi di seguire lo stesso destino della Libia.
Infine sembrava che, dopo tre o quattro decenni di dittature che hanno sfruttato tutte le istituzioni governative per raggiungere i propri ristretti interessi piuttosto che quelli dello Stato e della società, cambiare qualcosa senza causare un completo collasso delle istituzioni fosse impossibile.
Questo, a grandi linee, è ciò che è successo nel mondo arabo negli ultimi cinque anni. La speranza è che gli eventi assumano una svolta positiva sul lungo termine e che il sangue di migliaia di martiri non sia stato versato invano.
M. K. è uno studente siriano che ha preferito rimanere anonimo.