Trump è stato favorito da hacker russi? Può essere, ma non è questo il punto

La situazione è ancora piú complessa, e piú paurosa, di quanto vogliano Washington Post e New York Times. Cerchiamo di analizzarla per punti.

Trump è stato favorito da hacker russi? Può essere, ma non è questo il punto

Due leak, chiaramente coordinati, a Washington Post e New York Times hanno rivelato che l’intelligence statunitense starebbe seriamente investigando l’influenza della Russia sul risultato elettorale. Ma entrambi i giornali hanno pubblicato informazioni anonime, non sostanziate da nessun documento effettivamente leakato, e la notizia casca un po’ troppo perfettamente nell’attuale fase di formazione del gabinetto Trump per pensare che si tratti di una fonte non politicamente interessata.

Lo scenario che i due piú grandi quotidiani statunitensi dipingono è da incubo: la Russia avrebbe usato materiali ottenuti attraverso hack, diffusi da Wikileaks e poi analizzati principalmente da testate conservatrici — con la notabile eccezione dell’Intercept di Glenn Greenwald — per influenzare il voto prima, e creare paura, incertezza e dubbio sulla sanità del voto dopo. Lo scopo, tuttavia, non sarebbe affatto chiaro: se Trump si è sempre dimostrato molto “affabile” sulla questione russa, altrettanto non si può dire del partito che porta con sé al Congresso e alla Casa Bianca.

Insomma, la situazione è ancora piú complessa, e piú paurosa, di quanto vogliano Washington Post e New York Times. Cerchiamo di analizzarla per punti.


Come sono andate le elezioni

La vittoria di Trump alle elezioni statunitensi del mese scorso è una disgrazia di proporzioni storiche. Che si tratti dell’evento zero verso un modello di presidenzialismo piú autoritario o “banalmente” l’inizio di una nuova, in ogni caso troppo lunga, amministrazione repubblicana, le conseguenze per i deboli e gli indifesi saranno amarissime.

Sebbene Clinton abbia stravinto il voto popolare, portando a casa almeno quanti voti quanto Obama, non li ha presi negli Stati dove le servivano grandi elettori: questo è avvenuto attraverso un importante slittamento del voto in certe fasce della popolazione, tra cui quella working class bianca che ha votato interamente come un gruppo etnico, malgrado la composizione sociale dei loro stati li veda fortemente favoriti rispetto a afroamericani, ispanici, asiatici.

Tra questi elettori ha fatto presa una fortissima campagna di disinformazione e propaganda, attuata soprattutto attraverso nuovi vettori su social network. La causa: nel contesto digitale, notizie e propaganda sono virtualmente indistinguibili — se state leggendo questo articolo su Facebook, lo state facendo probabilmente attraverso un Instant Article. The Submarine pubblica solo notizie vere, ma “da vedere” siamo indistinguibili dai tanti siti completamente inaffidabili che utilizzano le stesse tecnologie che Facebook costringe gli editori a usare offre agli editori.

Uno dei cavalli di battaglia della campagna Trump contro Clinton era armato da due scandali di email: il primo, quello riguardo i messaggi di Stato salvati su server privati, il secondo causato da un ampio leak pubblicato da Wikileaks. Nella mente di molti, le due storie si sono sovrapposte in un unico pot-pourri che raccontava della corruzione e della fame di potere insaziabile di Clinton, un mostro che non si fermava di fronte a niente, nemmeno all’omicidio. Ve ne abbiamo parlato per primi, lo scorso agosto: si è trattato di una campagna elettorale dominata da escapismo e paranoia.

È facile gettare i documenti pubblicati da Wikileaks nello stesso calderone con post–verità e propaganda, ma si tratta di una semplificazione che banalizza grandemente il discorso, un po’ troppo comoda per i commentatori democratici.


Due differenze fondamentali

Rispetto al calderone di disinformazione criminale contro Clinton, i leak di Wikileaks e le analisi dell’Intercept, ma anche i tanti exposé del comunque amichevole New York Times, si distinguono per una differenza fondamentale e banale — sono storie vere, provate, giornalisticamente ineccepibili. Nel caso dei servizi del sito web di Greenwald, nato sull’onda dei leak di Snowden, confermati da documenti direttamente pubblicati, consultabili dal pubblico.

La quasi fissazione dell’Intercept, ma appunto, anche del NYT sugli scandali di Clinton, è parte della lettura deforme che la stampa liberal aveva dato alle elezioni: intere redazioni erano a caccia di notizie, scandali e scandalucci sulla prossima presidentessa degli Stati Uniti.

Nessuno metteva in dubbio che Trump fosse un manesco bancarottiere misogino — lo sapevano tutti. Un’altra cosa che sapevano tutti? Che avrebbe perso. (Ops.)

Quando si valutano le accuse della CIA riguardo l’influenza della Russia sulle elezioni, è bene quindi distinguere tra due piani: se si riuscirà a dimostrare che parte della rete di giornali di propaganda sono stati direttamente finanziati con soldi russi, si potrà parlare di un certo tipo di influenza, se il discorso rimarrà nell’ambito dei leak, di un altro tipo.

Ovvero: se gli hacker che hanno trafugato le mail della Clinton e le hanno poi girate a Wikileaks sono stati finanziati direttamente dall’intelligence russa, si parla senza ombra di dubbio di un atto di guerra cybernetica — ma non si può scontare nemmeno un po’ che queste notizie fossero vere, e che, malgrado le amarissime conseguenze che pagherà il mondo ora che Trump ha vinto le elezioni, al netto è soltanto positivo che siano venute alla luce. Viceversa, se la Russia avrà effettivamente finanziato un network di post-verità per avvantaggiare specificamente Trump, le conseguenze, in particolare sul partito repubblicano, saranno inevitabilmente molto diverse.

Una questione orbitante, ma comunque fondamentale: se si è trattato non di un leak, ma di un’azione di hacking, forse di un atto di cyberterrorismo, come deve comportarsi la stampa di fronte a queste rivelazioni? Dobbiamo pretendere che ignori storie vere? Può essere che, come società, mentre casi come questi si fanno piú frequenti, decideremo così. Ma non è una scelta scontata.


Questa notizia, invece, non è verificata — e ha una funzione politica

Come scrivevamo all’inizio, Washington Post e New York Times non sostanziano in nessun modo le rivelazioni che hanno portato alla luce venerdì: dobbiamo affidarci alla loro storica affidabilità per valutare queste informazioni, ma è fondamentale altresì sottolineare che la mancanza di fonti o documenti pubblici può indicare una sola cosa: una fonte politica e non “dal basso.”

Per cui, congratulazioni ai due quotidiani per lo scoop, ma ricordiamoci sempre che le fonti dell’intelligence valgono quello che valgono.

Il loro lavoro è solo uno: mentire sistematicamente, in modo da controllare narrativa politica e opinione pubblica, da sempre.

Vera, e piú volte provata, invece, è la preoccupazione bipartisan per le relazioni tra Trump e la Russia. Questa non è una battaglia di Obama, o dei democratici, ma di Washington. Dietro le quinte l’alleanza va dall’ancora–Presidente Obama ai senatori repubblicani McCain e Graham, falchi conservatori che niente hanno in comune con il partito cosmopolita che Obama ha lasciato a Clinton. Il risultato immediato, o almeno sperato, in questi giorni di formazione del gabinetto, e quindi fondamentali per marcare la direzione politica della prossima amministrazione, è quindi di contenere e irregimentare la posizione di Trump nei confronti della Russia.

Che si tratti effettivamente di hacker russi o di fonti terze, importa fino a un certo punto — non si tratta di propaganda, ma di notizie verificate, e per quanto abbia avuto conseguenze disastrose, che la verità influenzi le elezioni è sacrosanto.