C’è qualcosa di ironico e insieme tragico nel fatto che la prima legge licenziata dal Parlamento dopo il referendum sia stata approvata con procedura sostanzialmente monocamerale. Vale a dire, con un iter che ricorda quel modello decisionale rifiutato dagli elettori alle urne.
[column size=one_half position=first ][/column]
[column size=one_half position=last ]La Salvia è una pianta magica: il suo nome vuol dire salvatrice.
La nuova linea profumata Erbaflor
[button color=”white” size=”normal” alignment=”none” rel=”follow” openin=”samewindow” url=”http://www.erbaflor.com/it/disalvia”]Scopri di più[/button]
[/column]
La manovra di bilancio è diventata legge mercoledì dopo una discussione effettiva di soli 10 giorni tra i due rami del Parlamento e con un passaggio al Senato durato meno di 5 ore, senza neanche un relatore assegnato dalla commissione Bilancio. Alle due e mezza di mercoledì 7 dicembre era già tutto finito.
Per fare un confronto, nel 2014 il via libera al Senato era arrivato alle cinque di mattina del 20 dicembre, dopo 22 ore di seduta. Lo scorso anno per i soli lavori della commissione Bilancio della Camera di ore ce ne erano volute 37.
Proprio per blindare questo tipo di misure dai rischi ostruzionistici, le leggi con scadenza temporale prefissata – tra cui anche la legge europea e la conversione legislativa dei decreti-legge – è stato concepito lo strumento operativo della “seduta fiume.” Considerato erroneamente termine del solo linguaggio giornalistico, si tratta di una consuetudine parlamentare introdotta senza modifica regolamentare grazie alla quale, su proposta dei capigruppo, è consentita la continuazione di una seduta sino a conclusione dei lavori e cioè all’esaurimento degli argomenti all’ordine del giorno.
Le sedute fiume sono dunque il pane quotidiano delle manovre, tanto che il record stabilito ieri vale quanto quello di medaglie olimpiche di Phelps e potrebbe, a costituzione invariata, non essere superato in futuro. Anche se per le modalità con cui è arrivato, il record sembrerebbe più paragonabile ai sette Tour de France di Lance Armstrong vinti con l’aiutino.
Decisiva è stata infatti la fretta di superare l’ultimo ostacolo all’apertura dell’invocata crisi di governo. Una spinta di pura volontà politica che ha superato divisioni interne promesse ai gruppi di interesse e annunciate battaglie ostruzionistiche. Con il risultato di lasciare in sospeso anche diverse misure rimaste fuori dal testo blindato al Senato come gli incentivi per ristrutturazioni nei condomini, la stabilizzazione dell’ecobonus anche oltre il 2017, diverse questioni finanziarie come lo spalma-contributi per il fondo di risoluzione e le correzioni sul trattamento delle imposte differite (Dta) per le banche e lo stanziamento di 50 milioni a Taranto per l’emergenza sanitaria. Appuntamento rimandato al Milleproroghe per chiudere le questioni aperte, sebbene non tutto potrà essere risolto attraverso il decreto.
Va comunque precisato che non sarebbe stata questa la procedura prevista per l’adozione delle leggi di bilancio dal disegno di legge Renzi-Boschi. Avesse vinto il sì, il testo della manovra licenziato dalla Camera sarebbe stato trasmesso automaticamente all’altro ramo, e non su attivazione apposita. A Palazzo Madama i senatori avrebbero avuto 15 giorni per esaminarlo e apporre le modifiche ritenute opportune, la metà del tempo di cui godevano prima (e godranno ancora). Ritornato alla Camera, la seconda lettura dei deputati sarebbe stata comunque sufficiente ad approvare la manovra. Si sarebbe garantita la supremazia della Camera nel processo legislativo, con interventi più o meno incisivi del Senato. Quanto accaduto in settimana, va anche oltre questo schema e rappresenta chiaramente una forzatura politica.
Quello della procedura lampo con cui è stata approvata la manovra 2017 è, in sé, soltanto un dato curioso. Resterà un evento isolato e influenzato dall’attuale contingenza politica della crisi di governo. Conferma tuttavia la veridicità di due pregiudizi di fondo sostenuti dagli opposti fronti del referendum. Pregiudizi che si pensavano contrastanti e che invece, alla prova pratica del monocameralismo, si sono dimostrati convergenti.
E cioè che a conti fatti, con una camera in meno, i tempi di approvazione di una legge sono incredibilmente ridotti. Ma che, allo stesso modo, quando c’è volontà politica di giungere a un accordo in tempi brevi, un sistema bicamerale paritario diventa efficiente e decisionista anche di fronte a testi di oltre mille pagine.
Qualsiasi ragionamento sul futuro della forma di governo non dovrebbe passare subito da ragionamenti tecnici e regolativi sul numero delle camere parlamentari, ma da una valutazione preliminare sul considerare eccezionale oppure possibile e replicabile in modo sistematico questo tipo di volontà politica comune.