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Tra una settimana sapremo finalmente di che morte dobbiamo morire i risultati del referendum costituzionale. Mentre una delle campagne elettorali più avvilenti della storia del Paese — o aberranti, per dirla con Napolitano — volge finalmente al termine, gran parte dell’elettorato è ancora indecisa su cosa votare.

Gli ultimi sondaggi pubblicabili, di settimana scorsa, davano una percentuale di indecisi tra il 13% e il 28% — numeri esorbitanti capaci di stravolgere qualsiasi risultato.

Trattandosi di due alternative così nettamente definite può sembrare sorprendente che circa un terzo dei cittadini, a meno di una settimana dal voto, possa ancora oscillare indifferentemente tra l’una e l’altra.

Mi è capitato di sentire, a un microfono aperto di Radio Popolare qualche settimana fa, un ascoltatore stupirsi genuinamente dell’indecisione dilagante, “dopo tutta l’informazione che è stata fatta.”

Proprio l’informazione, in realtà, è la prima da incolpare per questa sorta paralisi epidemica della scelta. Non che siano mancate accurate spiegazioni del contenuto della riforma — tra i lavori migliori, l’approfondimento di Valigia Blu — ma gran parte del dibattito pubblico attorno al referendum, in ossequio a un’idea distorta del dogma della par condicio, è stato plasmato nella forma del dibattito tra opinioni contrapposte, Sì versus No, popolarizzata televisivamente ed elevata al rango di genere letterario soprattutto dall’indefesso Mentana, che da metà settembre ne conduce uno alla settimana.

Dibattiti ovunque: nelle scuole, nelle Università, nei circoli politici, nei locali — è diventato quasi un modo di far serata, come andare a sentire un concerto o vedere a un pub la partita di calcio con gli amici — vedi il caso dello scontro Renzi-Zagrebelsky, trasformato dalla banalizzazione pop in una sorta di epic rap battle of history. Tutto bene, finché non si tratta di apportare alla Costituzione il più esteso set di modifiche della storia repubblicana.

Se avete avuto la sciagura di spendere uno dei vostri venerdì sera guardando Mentana, avrete ben chiara la sensazione di frustrazione che rimane verso la mezzanotte e mezza, quando la trasmissione finisce. I dibattiti, per quanto possano essere moderati equilibratamente e pensati come “ordinate esposizioni delle ragioni del Sì e del No,” sono completamente inutili: almeno dal V secolo a. C. si sa che la ragionevolezza degli argomenti incide solo in piccola parte sulla capacità di persuasione degli stessi — troppo peso hanno le abilità affabulatorie degli interlocutori, la fama pregressa, i pregiudizi, e altri elementi accessori.

L’unico vero modo per decidere: yesnobutton.com

L’indecisione non è dovuta a ignoranza dei contenuti della riforma — al contrario, ignorandone i contenuti è molto più facile prendere una decisione “politica,” come in tanti faranno, o aggrapparsi a un principio di autorità (Tizio vota Sì, mi fido del parere di Tizio, quindi voto Sì). Al contrario, l’indecisione è favorita e alimentata proprio da questa iperesposizione mediatica, un information overload di opinioni contrapposte che finiscono per sembrare equivalenti.

Offre bene il polso della situazione il sensazionalismo che ha accompagnato sui social, pochi giorni fa, il diff-check tra i due testi della Costituzione (prima e dopo le modifiche) pubblicato su GitHub, ripreso da Motherboard e condiviso centinaia di volte — come se a più di sei mesi dall’approvazione parlamentare della legge non esistesse già un documento del genere, e qualche solitario eroe di internet offrisse finalmente lo strumento definitivo per elevarsi al di sopra della propaganda.

Il documento ovviamente esisteva già, datato 20 maggio 2016, a cura del Servizio Studi della Camera dei Deputati (e reperibile facilmente anche altrove, per esempio sul sito del comitato del No, ma anche su quello del Sì), pubblicato insieme a un dossier di oltre 300 pagine di schede di lettura con approfondimenti su ciascun articolo della riforma. Che così tante persone non ne fossero a conoscenza dimostra che l’informazione sul referendum ha seguito sin dall’inizio i binari sbagliati.

Un voto del tutto razionale, basato sul merito della questione, potrebbe fondarsi soltanto sullo studio individuale dei contenuti della riforma — un’operazione lenta, faticosa e difficile, come le 300 pagine del Servizio Studi della Camera silenziosamente ricordano (senza contare le conoscenze pregresse che sarebbero richieste per una completa padronanza dell’argomento).

Ma anche così, l’indecisione — o, se preferiamo, la sospensione del giudizio — rimane la posizione più ragionevole. Se l’informazione ha avuto i suoi limiti, infatti, la riforma stessa ne ha senz’altro di più — e non tanto per il suo supposto essere “pasticciata,” come accusano i sostenitori del No, quanto per il fatto di lasciare gran parte delle proprie disposizioni in balìa di decisioni future difficilmente prevedibili — prima fra tutte, la legge elettorale e il regolamento che dovrà stabilire il funzionamento del nuovo Senato.

Se bastasse una conoscenza approfondita dell’argomento per approdare a una decisione matematicamente esatta (se soltanto esistesse una decisione matematicamente esatta), gli esperti di diritto costituzionale starebbero da una parte sola. Invece, il processo decisionale su un referendum di questo tipo non può che partire da una valutazione personale e ideologica di tipo politico — qual è la forma di Stato che preferisco? — e finire in un’inevitabile salto nel vuoto, data l’impossibilità di prevedere con certezza l’evoluzione politica che seguirà l’una o l’altra scelta.

Il 4 dicembre andremo a votare, ma sarà una scelta viziata e sbagliata in ogni caso. Per questo, alla frustrazione dell’indecisione si somma un certo senso di ingiustizia — è ingiusto pretendere dai cittadini un Sì o un No su uno stravolgimento istituzionale di questa entità. Sotto l’apparenza di un suffragio democratico sul futuro ordinamento della nostra Repubblica, sta un voto aleatorio, casuale, in gran parte dettato da criteri esterni — ma impossibili da ignorare, e per questo largamente sfruttati dalle due fazioni — a sancire in definitiva il fallimento della politica parlamentare, chiamata a riformare la Costituzione e del tutto incapace di farlo.