Nessuno si salva dall’epidemia delle notizie false

Uno studio dell’università di Stanford rivela che distinguere notizie attendibili, notizie false e pubblicità su internet è un problema anche per molti “nativi digitali”

Nessuno si salva dall’epidemia delle notizie false

Come si distinguono propaganda e informazione, o come le chiamiamo ora, le notizie false dalle notizie vere? È un problema di cui abbiamo già parlato, ma che non si esaurisce facilmente.

Una parte importante della narrativa di chi sminuisce il problema è descriverlo come transitorio: come un problema strettamente legato al consumo maldestro di internet da parte di persone “non–nativi” digitali. Un nuovo studio dell’Università di Stanford, invece, analizza come i giovani valutano la credibilità delle notizie, e la situazione risulta pessima anche tra il pubblico piú giovane.

All’interno del campione — 7804 studenti, dalle medie all’Università — l’82% degli studenti delle medie non si è dimostrato in grado di distinguere tra contenuti sponsorizzati, e articoli veri e propri.

Alcuni fattori piú preoccupanti rilevati dallo studio: nel calderone dei social media, il campione si è mostrato completamente incapace di valutare la fonte da cui provenivano le notizie. In particolare, tutti hanno indicato come “piú affidabili” i post piú densi di informazioni, anche se provenienti da singoli utenti sconosciuti, piuttosto che lanci piú semplici magari provenienti da una fonte solitamente affidabile — CNN, NPR, e cosi via.

Diventa così particolarmente facile per vettori malintenzionati impacchettare notizie vere di dettagli fasulli.

Ancora: per piú del 40% degli studenti, dalle scuole medie all’Università, si conferma assurda la potenza delle “belle figure,” tutti i post contenenti immagini vengono considerati “piú affidabili” — anche banalmente una foto di margherite appassite, senza nessuna specificazione sull’autore o la provenienza della foto, è sufficiente per “inverare” una bufala sulle condizioni dei terreni attorno alla centrale nucleare di Fukushima.

Sam Wineburg, docente a Stanford e professore di un corso di “alfabetizzazione ai media,” sostiene che sia fondamentale impartire fondamenti di fact checking ai giovani, non solo a scuola ma prima ancora in famiglia. È una proposta non dissimile da quanto abbiamo scritto pochi giorni fa — il momento in cui si innesca il meccanismo per imparare è: capire perché si clicca sui link.

Se è indubbiamente necessario armare i cittadini ad un consumo piú critico di internet, il problema va in qualche modo affrontato alla radice, e le responsabilità sono tante.

In queste settimane si sta parlando delle notizie false perché per la prima volta assistiamo alle durissime conseguenze della diffusione di informazioni false su larga scala. Ma questa diffusione avviene da anni esattamente come le notizie false di Trump. In Italia, con l’esperienza degli exploit del blog di Beppe Grillo alle spalle, è facile ricondurre il problema alla sfera politica, ma prima ancora riguarda il format.

Attraverso gli articoli e i post sponsorizzati su Facebook e i grandi editori statunitensi hanno abbattuto un muro fondamentale: tra la produzione editoriale, che presumiamo essere vera e affidabile, e quella pubblicitaria, che siamo soliti osservare con occhio piú critico.

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Lo hanno insegnato alla macchina elettorale di Trump i tipi della Valley di Kushner: alla fine, il marketing e la propaganda online sono la stessa cosa — e funzionano sugli stessi binari, perché tutti i contenuti funzionano sugli stessi binari: gli articoli, la pubblicità, e le notizie false — che alla fine sono il punto di incontro tra i due linguaggi.

Il problema centrale, per Facebook, è il pretendere di continuare a essere una società di tecnologia e non una media company. Per chi osserva l’industria da tempo, è interessante osservare la traiettoria di Facebook, perché è esattamente la stessa che affrontò Yahoo nei suoi anni d’oro: da prodotto tecnologico, a portale, a media company, e poi, il tragico ritorno.

Mark Zuckerberg insiste che non è così, probabilmente anche per scansare le numerose responsabilità che il riconoscersi in una media company comporterebbe. Ma dallo scorso luglio, quando ha firmato un contratto da 50 milioni di dollari con celebrità e editori, da Gordon Ramsay a Vox Media, la start up che pubblica The Verge, Racked e Vox, per la produzione di Live video, che stavano facendo fatica a carburare, è una posizione particolarmente difficile da mantenere.

Si tratta, sostanzialmente, di un accordo di produzione contenuti — come quelli che editori e produttori televisivi firmano ogni giorno.

La soluzione, probabilmente, è a monte di Facebook — esattamente come negli anni siamo venuti ad aspettarci dai nostri browser di bloccare malware, codici pericolosi, e pubblicità fastidiosa come i popup, inevitabilmente arriveremo agli “ad blocker” dei contenuti falsi. Come implementarli sarà probabilmente sulle spalle di una terza parte, sia essa Google, Apple, o una nuova società che, a differenza di Facebook, si pronta a farsi arbitro della realtà.