La parola “khalifa” (la cui trasposizione italiana è comunemente nota come “califfo”) prende parte al mondo arabo a seguito della morte del Profeta, avvenuta nel 632 d.c., essendo sorto l’impellente bisogno di un suo successore spirituale e temporale.
Khalifa risuona tristemente noto nella vita di tutti i giorni per via di Abu Bakr al-Baghdadi, meglio noto come il “califfo” dell’autoproclamato Stato Islamico (ISIS), su cui non ci soffermeremo.
Quale è stata, piuttosto, la storia di questo termine?
Subito dopo la morte di Maometto, tra i suoi seguaci vi fu un momento di confusione.
Celebre è la frase di Abu Bakr, uno dei loro capi :
“Uomini, se venerate Maometto, Maometto è morto; se venerate Dio, Dio è vivo.”
Al di sotto di Dio, serviva una figura di rilievo in grado di fungere da arbitro nelle contese e fautore delle decisioni all’interno della comunità stessa.
In un incontro tra intimi e dirigenti fu proprio Abu Bakr ad essere indicato come successore del Profeta; la sorella ‘A’isha era moglie di Muhammad.
Il califfo non era un profeta. Egli era capo della comunità, non certo un messaggero di Dio, non poteva avanzare la pretesa di essere portavoce di continue rivelazioni; tuttavia attorno alla loro figura rimase un’aura di santità e divina predilezione, ed in effetti gli stessi califfi rivendicarono una sorta di autorevolezza religiosa.
I primi califfi vengono definiti rashidun, cioè “ben guidati”.
Con Abu Bakr si introduce il termine Jihad, non propriamente traducibile con “guerra santa”. Nei suoi due anni di governo iniziò l’espansione musulmana.
Omar (634-644) e Othman (644-656) portarono avanti campagne espansionistiche in larga scala, arrivando a conquistare l’Iran e il Nord Africa.
Alì (656-661), infine, venne accusato dell’assassinio di Othman. A seguito di questa spaccatura, vinsero gli avversari del califfo, dando inizio a quella che sarà la dinastia Omayyade.