Non sono cadaveri, sono persone Intervista con Carlo Lucarelli
Il delitto di Garlasco, l’influenza della verità mediatica su quella giudiziaria, e perché non si può usare la parola “cadavere.” Una notte pavese con Carlo Lucarelli.
Quando incontriamo Carlo Lucarelli, romanziere, autore televisivo, giornalista, sono le undici di sera inoltrate. Siamo a Pavia, al Collegio Nuovo, Fondazione Sandra e Enea Mattei. Si è appena concluso l’incontro Tra Storia e Letteratura, condotto da Massimo Zaccaria e Carla Riccardi dell’Università di Pavia, dove nel pomeriggio del 19 ottobre Lucarelli ha tenuto la Bonacossa lecture – “Raccontare l’Africa.”
Fuori non potrebbe essere una notte piú pavese: uggiosa e nebbiosa insieme. È il clima giusto per parlare di delitti, così quando ci sediamo davanti a Lucarelli iniziamo da questo — come parlare, di delitti.
Lucarelli, grazie per il tempo che ci concede a quest’ora. Lei si identifica come scrittore, ma è diventato noto al grande pubblico per ricostruzioni giornalistiche, di storie vere. Qual è il confine tra narrativa e realtà, come racconta un romanziere una storia di cui non può scegliere protagonisti, eventi, dettagli?
Il confine è molto netto: la narrativa racconta una storia, che, anche se scopri piano piano mentre la scrivi, resta l’elemento principale. Deve essere bella, funzionare, deve raccontare qualcosa. Nella narrativa la storia, e l’autore, possono tutto: mentire, rovesciare, cambiare — anche abbandonare il codice del realismo. L’unica responsabilità dell’autore è nei confronti della storia. La realtà è un’altra cosa: ci sono personaggi, che sono persone, che pretendono il rispetto dell’autore. Quando facevo Blu Notte, all’inizio, avevo pensato: dopo aver raccontato un caso, e se non è risolto, ve lo dico io! ma inventando — da adesso in poi la mia storia, è finta.
Mi sono accorto che, pur volendo dare una soluzione a qualcuno, non potevo farlo, perché raccontando una storia vera se avessi detto: — è stato il sindaco, o la monaca, o il maggiordomo — quelle sono persone vere, che si sentirebbero per forza coinvolte, accusate.
Una volta volevamo raccontare la storia di una persona anziana uccisa in casa sua. A me sarebbe piaciuto raccontare una storia come se lei fosse stata la Strega di Biancaneve, sempre chiusa in casa, che presta ad usura, che odia tutti.
La verità era un’altra, e questa era completamente pulita, ma non potevo giocare con l’artificio — ah, vedi che scaltro Lucarelli che mi ha ingannato?
Sempre riguardo la cronaca nera: è uscito per Quinto Tipo un saggio di Selene Pascarella, che si è occupata di nera su tabloid per anni. Lei spesso ha affrontato argomenti, con grande correttezza, che sono invece tipici dei tabloid: come si fa a fare nera senza scadere, senza essere cheap, senza fare male a qualcuno.
Quando ho cominciato con Mistero in blu c’erano già state alcune trasmissioni di cronaca, alcune davvero molto … vampiresche, che sbattevano il mostro in prima pagina. Era talmente uno standard che il primo anno, quando andavamo in giro, ci sbattevano le porte in faccia quando dicevamo che eravamo della televisione: — Ciao. Vampiri.
Dal secondo anno erano le persone a chiamarci quando c’era un caso da investigare.
Le nostre cautele partivano addirittura da dei paletti linguistici. Io nella mia narrazione, ad esempio, non userò mai la parola “cadavere.” Perché? Perché anche se tecnicamente è quello che metto in scena, io sto parlando della persona. Questa è una scelta che cambia tutto.
Secondo me l’unico modo è lavorare per sottrazione, quando si racconta cronaca nera. Due cadaveri non fanno piú paura di uno, non servono almeno tre litri di sangue, altrimenti la gente non si spaventa: è già tremendo che ci sia una persona sdraiata per terra, morta, se la conosci.
Siamo appena fuori dal centro di Pavia, e ne abbiamo anche parlato di recente. Il caso Garlasco è un archetipo: la giovane ragazza che apre lei stessa la porta al suo assassino, il colpevole di cui non si scopre il movente, l’arma del delitto scomparsa.
Ci sono alcuni casi che sono piú fortunati a livello mediatico. Vale la stessa cosa anche per la fiction: a volte ci sono ingredienti che catturano di piú il pubblico. Il caso irrisolto è il primo ingrediente fondamentale. Poi, i casi che riguardano un certo tipo di persone hanno naturalmente piú traino: una ragazza giovane, una persona particolare, un ambiente caratteristico. Un altro esempio: il caso di Cogne. Oggi è risolto, ma per così tanto tempo rimaneva sospeso l’interrogativo — è stata lei o non è stata lei?
Anche l’ambientazione, in una baita in montagna — sono questi dettagli che tengono vivi certi casi e decretano come dimenticabili altri, come il caso della tipa che ha messo il bambino nella lavatrice, successo solo pochi mesi dopo. Ma erano in una casa popolare, lei non ti ricordi nemmeno chi fosse.
Ancora: quante Simonette Cesaroni ci sono in Italia, ad esempio, vittime di un caso insoluto? Ma il caso nasce solo per le foto di lei, una bella ragazza in costume. Se si trattasse di un romanzo sarei partito proprio da lì: un personaggio piacevole, una bella ragazza, che non vorresti vedere morta.
Un’ultima domanda, riferita in parte al caso Garlasco, ma piú in generale. Colpevole, arma del delitto, movente — quando mancano è un problema enorme per dover ricostruire la verità giuridica, ma è la loro assenza ad alimentare narrazioni e tensioni della verità giornalistica e mediatica. Dove sconfinano questi codici? Come si influenzano?
Nei processi, influisce fino ad un certo punto — certo lo fa nei casi indiziari, dove magari non sappiamo perché uno abbia ucciso qualcuno, ma l’hanno visto tutti.
Per la verità giornalistica — e quella mediatica, ormai sono quasi la stessa cosa — non servono tantissimo le prove: è un codice fatto di ipotesi e punti interrogativi. Quello che non deve esserci nel giornalismo è la fretta di raccontare le cose: ricordo durante le indagini del caso di Cogne che emerse la teoria che il bambino fosse stato ucciso con un giocattolo, perché un giornalista aveva visto i carabinieri spostare dei giocattoli. Era stato invece il padre che, stufo di vedere la bicicletta del figlio in televisione, aveva chiesto se al successivo sopralluogo si fosse potuto riportarli in casa.
Invece la stampa titolava — Vuoi vedere che è stato ucciso con un giocattolo?
E invece non era vero, era un’interpretazione: e il giornalismo non può andare avanti così, con i “vuoi vedere.”
Continuano intanto le conferenze serali al Collegio Nuovo: martedì prossimo 25 ottobre, alle 21, si incontrerà Anna Vanzan, iranista e islamologa, sulla figura della donna e del femminismo nell’islam.