Zeinab Sekaanvand Lokran è una ragazza curda iraniana di ventidue anni e potrebbe essere impiccata da un momento all’altro. Aveva solo quindici anni quando si è sposata, come cinque milioni di bambine costrette a farlo ogni anno.
Era partita dal suo villaggio nel nord dell’Iran, aveva abbandonato la famiglia rigida e conservatrice per sposarsi, con la speranza di un futuro migliore. Quello che ha trovato, però, è stato tutt’altro.
Hossein Sarmadi, il marito, di quattro anni più grande, la picchiava e maltrattava ogni giorno.
Zeinab ha provato a denunciarlo più volte alla polizia senza alcun risultato. La ragazza ha poi chiesto il divorzio — che il marito, però, le ha negato. Ha provato a far ritorno a casa, nel nord del Paese, ma la famiglia l’ha rifiutata ed è stata così costretta a tornare da Hossein.
Nel 2012 il marito Hossein è morto, ucciso per un accoltellamento. Zeinab aveva solo diciassette anni ed è stata arrestata, con l’accusa di essere responsabile del delitto. È stata trattenuta in una stazione di polizia per venti giorni, dove ha riportato di essere stata ripetutamente torturata dagli agenti. Quando è stata rilasciata ha confessato di aver ucciso il marito.
È stata incarcerata e non le è stato concesso un avvocato fino all’udienza finale, il 18 ottobre 2014, durante la quale ha negato di essere colpevole dell’omicidio del marito e ha accusato il fratello di Hossein. Anch’egli, dice Zeinab, l’aveva molestata ripetutamente e stuprata.
La ragazza ha spiegato di essersi assunta le responsabilità dell’omicidio spinta dal cognato che le aveva promesso di salvarla, concedendole il perdono. Secondo la legge islamica, infatti, la famiglia della vittima può decidere di perdonare il colpevole accettando un risarcimento, evitandogli la pena di morte.
Ciò che era stato promesso dal fratello di Hossein, però, non è stato rispettato, così come non è stata accolta la ritrattazione di Zeinab. I giudici della seconda sezione del tribunale penale della provincia dell’Azerbaijan, infatti, hanno considerato solo la prima confessione forzata della ragazza che è stata condannata alla pena di morte, secondo il criterio del qesas, della “pena equivalente.” Chi è sottoposto a tale pena, secondo la legge iraniana, non ha diritto a chiedere la grazia o la commutazione della pena, cosa invece prevista nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. Anche la settima sezione della Corte Suprema ha confermato la sentenza.
I due tribunali, però, non hanno considerato nemmeno le linee guida nel codice penale islamico del 2013, non avendo disposto una perizia medica per valutare la salute mentale di Zeinab al momento del reato e non l’hanno informata del fatto che avrebbe potuto chiedere un nuovo processo.
A Zeinab, quindi, è stato negato un processo regolare, così come le sue dichiarazioni sono state ignorate.
La ragazza durante la permanenza nella struttura carceraria si è risposata con un prigioniero ed è rimasta incinta. I giudici hanno sospeso la pena fino al momento del parto e Zeinab è stata trattenuta in ospedale per l’intera durata della gravidanza, ma il bambino che ha dato alla luce è nato morto. Subito dopo il parto, è stata riportata nella struttura penitenziaria Oroumieh Central Prison, dove attende l’esecuzione della sentenza, ovvero la pena di morte per impiccagione.
Le perizie psichiatriche su Zeinab hanno evidenziato una grave depressione e il fatto che abbia partorito un bambino morto è dovuto alle condizioni precarie e fragili unite a uno shock, probabilmente dovuto all’esecuzione della condanna a morte della sua compagna di cella.
Neanche dopo questo sfortunato evento è stato permesso a Zeinab di avere un supporto per la depressione di cui già soffriva, unita a una depressione post-partum.
L’Iran ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e per questo è obbligato a vietare le condanne a morte per i minori e per chi ha commesso reati quando non aveva ancora compiuto 18 anni, ma questo, nel caso di Zeinab, non è successo.
La Convenzione, poi, stabilisce che non sia possibile condannare a morte né all’ergastolo senza la possibilità di rilascio anticipato.
L’Iran, inoltre, prevede delle leggi che risparmiano la pena di morte ai minorenni responsabili di reati non consapevoli dell’atto. Tuttavia i giudici iraniani non sembrano rispettare questo punto: infatti, come sostiene Amnesty International, nelle carceri dell’Iran oltre 49 minori attendono l’esecuzione della condanna a morte e dal 2005 al 2016 ne sono stati giustiziati almeno 74.
Amnesty International ha sollecitato le autorità iraniane a sospendere l’esecuzione di Zeinab, affinché abbia un nuovo processo che ne rispetti i diritti e non sia inflitta la pena di morte. L’attivista iraniano Mansoureh Mills di Amnesty dichiara “Speriamo di poter fermare la sua esecuzione con una sufficiente pressione internazionale, ma abbiamo bisogno del supporto di tutti per aumentare la consapevolezza sul caso di Zeinab.” Prosegue Mills: “Questo caso è proprio l’emblema della violazione dei diritti dei minori che hanno commesso reati in Iran.”