Nel Ventunesimo secolo non siamo ancora capaci di ripararci dalla pioggia
Gli ombrelli sono probabilmente una delle peggiori invenzioni della storia dell’uomo — e hanno abbassato i nostri standard di sopportazione in caso di pioggia. Ma dobbiamo pretendere di più.
Le prime gocce di pioggia sono cadute sulla superficie terrestre circa quattro miliardi di anni fa, molto prima che comparissero gli esseri umani.
Gli ombrelli, invece, esistono almeno dai tempi dell’Antico Egitto, dove però — per ovvie ragioni geografiche — erano utilizzati principalmente come mezzo per ripararsi dal sole. E in realtà è stata questa la funzione principale dell’ombrello per tutta l’età antica — come vuole il nome stesso dell’oggetto, dal latino umbra.
La prima applicazione dell’ombrello come strumento anti-pioggia viene fatta risalire agli antichi cinesi, ma la sua popolarizzazione si deve senz’altro all’età moderna. L’ombrello diventa un oggetto di uso comune nelle città nord-europee a partire dal XVIII Secolo inoltrato, uscendo definitivamente dal dominio della moda femminile nobiliare fancy e guadagnando progressivamente un’accettazione sociale generalizzata.
Così è tramontata definitivamente l’epoca del parasole, confinato ormai sulle spiagge o sui terrazzi nella stagione estiva, mentre sembra destinato a non essere mai più messo in discussione il predominio dell’ombrello come strumento anti-pioggia standard: in poco più di un secolo si è radicato irrimediabilmente nell’immaginario e nella cultura popolare, da Hollywood alle emoji, grazie alla sua estrema economicità, portabilità — e smarribilità.
Tuttavia, se non abbiamo notizia di antichi Greci e Romani che utilizzano ombrelli per ripararsi dalla pioggia, la ragione è semplice: gli ombrelli non funzionano, specialmente se la pioggia supera appena l’intensità di un nebulizzatore di essenze.
Perché abbiamo affidato a un ritrovato tecnologico così dozzinale il delicato compito di riparare noi stessi dalle asprezze del meteo? Gli ombrelli, per dire, sono straordinariamente più diffusi di quanto non sia l’abbigliamento impermeabile — che pure è molto più comodo ed efficace.
Ernie Smith, nella sua newsletter Tedium, si è da poco occupato del problema, passando in rassegna alcune dei tentativi di migliorare l’arretratezza strutturale e l’inadeguatezza dell’oggetto-ombrello. Tra questi, il KAZbrella, che su Kickstarter nel 2015 ha raccolto oltre 260 mila sterline: un ombrello che si chiude al contrario, risultando così più comodo da aprire e chiudere in quel difficilissimo frangente in cui si entra o si esce da uno spazio coperto, e che, soprattutto, lascia la parte bagnata all’interno.
Ma, come puntualizza Smith, la percezione dell’ombrello come un oggetto tendenzialmente usa e getta, di poco valore, anonimo e immediatamente rimpiazzabile, rende difficilmente appetibili da un punto di vista commerciale tutte le migliorie tecnologiche che comportino anche un minimo aumento di prezzo — che è un altro modo per dire che ci siamo abituati a soffrire durante i giorni di pioggia (almeno finché la Apple non si decide a produrre un ombrello Beats by Dr.Dre).
Il fatto che, a queste latitudini, i giorni di pioggia siano piuttosto frequenti rende ancora più paradossale l’inadeguatezza dei nostri mezzi: nel secolo della rivoluzione informatica, delle nanotecnologie, della robotica, ci ripariamo dalla pioggia con un oggetto che non funzionava neanche quattromila anni fa. Bisogna allora auspicare un ripensamento più generale delle tecnologie anti-pioggia: se è vero che non esiste il cattivo tempo, ma solo un abbigliamento inadeguato, così vale per le nostre città — non sono pensate per la pioggia.
Ed è probabile che gran parte della colpa sia da addossare proprio alla diffusione degli ombrelli: finché erano confinati al compito tutto sommato semplice di riparare dal sole nobili annoiati in portantina, lo standard per ripararsi dalle precipitazioni nelle vie cittadine erano i portici — una tecnologia vecchia come l’architettura in pietra, ma ancora efficace al 100%, come testimonia l’esperienza di pochi esempi urbanistici virtuosi — Bologna, in primis.
Come l’aria condizionata ha impigrito architetti e designer, non più incentivati a prestare attenzione all’areazione naturale degli ambienti umani (ancora una volta è Ernie Smith a cogliere il punto), così l’ombrello ha fatto passare in secondo piano la necessità di un sistema urbano, universale e stabile, per proteggere i cittadini dalla pioggia. Gli abitanti delle città del piovoso emisfero occidentale hanno di fronte a sé una doppia alternativa: abbandonare progressivamente l’ombrello in favore di un abbigliamento impermeabile in tutte le sue parti — una transizione già visibile nelle città in cui la pioggia è più frequente che intensa, come Londra e Parigi — o sostenere a livello politico un colossale piano di riqualificazioni urbanistiche, per tornare a un ideale di città rinascimentale, a misura d’uomo, attraversata da vie e viali porticati. È una questione di civiltà.